Così tre uomini e una donna hanno portato a casa 1400 italiani

Tripoli«Abbiamo le braccia blu per le manganellate. Uno di noi stava in testa sventolando la bandiera italiana e dietro c'erano gli italiani da evacuare. Poi chiudevamo la fila con un altro tricolore», racconta Roberto Paioni del nucleo avanzato dell'Unità di crisi a Tripoli. Tre uomini ed una donna, che con l'ambasciata e la Farnesina hanno portato a termine una missione da far tremare i polsi: portare a casa 1400 italiani e 400 stranieri dall'inferno libico, senza morti e feriti.
«I connazionali che riuscivamo ad imbarcare per l'Italia ci ringraziavano con le lacrime agli occhi. Poi sui media sono saltati fuori critiche e rimostranze», spiega Paioni, 46 anni e giubbotto arancione dell'Unità di crisi. Fisico da rugbista scherza con il console italiano, Massimo Scarpa, altro armadio d'uomo e Franco Angeloni dell'ambasciata a Tripoli. «Franco era l'uomo dell'aeroporto, che riusciva ad aprire tutte le porte, ma per farlo dovevamo sfondare il muro umano di disgraziati in fuga», racconta Paioni. Per non parlare della polizia che prendeva tutti a manganellate, compresi gli italiani del «team di sfondamento» come si sono soprannominati. L'ultima evacuazione di gruppo è avvenuta tre giorni fa con 40 italiani. «Mi sono preso in braccio un bambino di due mesi proteggendolo come uno scudo umano - ricorda l'uomo dell'Unità di crisi -. Quando dovevamo salutarci la mamma me lo ha ridato dicendo "vai dal babbo"».
Nelle due settimane di rivolta in Libia l'Italia ha riportato a casa 1400 connazionali su 1500. Quelli rimasti hanno la doppia cittadinanza o sono donne sposate con dei libici.
All'aeroporto, per passare, bisognava ungere le guardie. Il prezzo fisso della mazzetta è di 300 dinari, circa 180 euro. Circola voce che per imbarcarsi su un catamarano approdato a Tripoli e raggiungere Malta chiedano la bellezza di duemila euro. Ogni tanto la polizia carica la massa umana degli immigrati africani in fuga all'esterno dell'aeroporto travolgendo tutto. «Una volta ci siamo trovati in mezzo - racconta Paioni -. Alcuni disgraziati per entrare si erano portati nelle valige chiavi inglesi e mazze nel tentativo di rompere i vetri dello scalo». All'interno gli uomini dell'Unità di crisi ricordano «il lezzo, la gente che sveniva o faceva i bisogni nello scalo».
Il nucleo avanzato inviato nei primi giorni di rivolta dalla Farnesina era guidato da Nicola Minasi. Un giovane diplomatico, veterano di Kabul, che ha gestito sul campo tutte le ultime crisi dal terremoto di Haiti, alla rivolta in Egitto. Ieri il team è rientrato in Italia. Nonostante le critiche la missione è compiuta. Basta leggere i messaggi arrivati da chi è stato evacuato: «Non so in quale situazione vi troviate ora, ma vi tengo nei miei pensieri e preghiere» scrive un italo americano. La professoressa Laura Pallaro, insegnante di italiano alla scuola Al Maziri di Tripoli, ringrazia per essere stata «salvata all'aeroporto, dove si trovava in mezzo alla calca». Paola Lombardo ha telefonato piangendo, quando l'Unità di crisi le ha rintracciato il marito che sembrava disperso.

«Si sentono critiche infondate» scrive Giovanni Incerti Massimini. Forse il ricordo più bello del pugno di uomini che ha aiutato gli italiani a fuggire dalla Libia rimarrà questa frase: «Un grazie da Ismaele per avergli ridato il suo papà».
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