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Cosa ci fa un maoista a capo della Mostra?

VeneziaLa rivista «Gentleman» l’ha ribattezzato «il Doge del cinema». Ma gli manca la barba. In realtà somiglia più a un Mandarino cinese: scaltro, felpato, cinico all’occorrenza, capace di rifilare una fregatura col sorriso sulle labbra. Il giornale che legge per primo al mattino è Il manifesto: per affinità cinefila e anche politica. Marco Müller, il direttore venerato da Natalia Aspesi di Repubblica, pilota da sei anni la Mostra di Venezia. Senza troppe scosse, sempre in sella, forte di una legittimazione che gli viene dall'aver macinato festival su festival: Torino, Pesaro, Rotterdam, Locarno, infine, dopo una parentesi da produttore, Venezia. Dove arrivò nel 2004, da uomo di sinistra con trascorsi extraparlamentari, nominato dal ministro Urbani. Riconfermato da Rutelli, Müller piace anche a Bondi. Scommettiamo che nessuno lo toccherà fino al 2011, quando scade il suo secondo mandato?
Del resto, l’uomo ci ha preso gusto. Ogni tanto annuncia di voler tornare a produrre e inventare film per l'amico Benetton, ma volete mettere guidare la Mostra? Temuto e corteggiato, sa muoversi tra le insidie festivaliere trasformando ogni mossa in una vittoria, anche quando gli rifilano qualche scherzo. Certo sono giorni bollenti, questi, per lui. Prima il film romeno che insulta la Mussolini e Tosi, poi Michael Moore col suo «Capitalism: a love story», infine lo sbarco del presidente Hugo Chávez, il caudillo pop non proprio democratico accolto come una star. Dicono che dal Corriere della Sera, considerato giornale amico, non s'aspettasse un titolo di prima pagina così critico: «Venezia s'inchina a Chávez». Passerà anche questa buriana. Sconfiggendo la naturale permalosità e facendo tesoro delle intemperanze mediatiche, Müller ha scoperto di recente la virtù tutta democristiana della moderazione: tanto pensa il presidente della Biennale, il tosto Baratta, a risolvere le grane politiche.
Sarà anche per questo che Müller si sente al sicuro. Da destra gli danno del «sinistro», del «maoista», del «radical-chic», ma lui risponde alle critiche contando i film americani in concorso, quest’anno addirittura 6; e a non dire del festone disneyano culminato nel Leone d'oro a John Lasseter, l’inventore di «Toy story», uno dei cineasti più ricchi di Hollywood. È possibile che il liberale Urbani, prima di chiamarlo a dirigere la Mostra, abbia pensato a qualcun altro, ideologicamente più affine, diciamo. Ma poi, svanito il sogno di arruolare Martin Scorsese, fu Müller a imporsi sugli altri candidati. Perfino l’imprudente firma in calce a una farneticante petizione pro Cesare Battisti non ebbe seguito: con abile mossa, il neodirettore si sfilò, spiegando, il 31 marzo 2004, pochi giorni dopo la nomina, di non riconoscersi nel testo. Aveva dato il suo sì al telefono.
D’accordo, non sarà maoista. Però. Vincitore di un'ambita borsa di studio, appena ventenne volò a Pechino, nello scorcio finale della cosiddetta Rivoluzione culturale, per studiare all’Accademia di scienze sociali. S’aspettava di abbeverarsi alla fonte del comunismo, invece, al grido «sono discipline borghesi», i compagni lo spedirono in Manciuria a occuparsi di «letteratura di massa», degli undici modelli del romanzo popolare. Non fu, ammette, l’esperienza sognata. Ancora oggi, scherzandoci sopra, dice d'essere un «marxista-zeninista», non leninista, cioè in bilico tra il libretto rosso di Mao e i sutra del buddismo tibetano. Ma - diciamolo - l'imprinting resta quello: l'ideologia, espulsa dalla porta, rientra volentieri dalla finestra, come succede a certi ex militanti di Lotta Continua approdati a ruoli di potere nel mondo del giornalismo e della tv. Basta scavare un po' e rispunta fuori l’estremista. Poi, vabbè, alle serate di gala della Mostra, sfodera un elegante tuxedo, detto «Nehru jacket», donatogli da Armani, col collo alto e stretto, ideale per chi non sopporta il papillon. I film cinesi, giapponesi, coreani restano la sua passione, ma li dissemina nel menù con maggiore parsimonia di un tempo, ben sapendo che la cinefilia sfrenata va combinata al glamour in salsa occidentale, sennò giornali e tv si scocciano.
Così, Mostra dopo Mostra, tessendo alleanze e concedendo ogni tanto qualcosa, «il nuovo Marco Polo» (parola di Baratta) ha saputo capitalizzare il consenso bipartisan di cui gode, pur restando decisamente a sinistra. Müller teorizza che «non vale la pena di interessarsi al cinema se non lo si considera sinonimo di libertà e tolleranza». E aggiunge: «Il cinema non ha bandiere, se non quelle della bellezza e dell’invenzione».

Programma condivisibile quanto generico, che il direttore poliglotta infiocchetta ogni anno inventandosi qualche astruseria per motivare le sue scelte. Estrose o noiose, audaci o punitive, a seconda dei punti di vista. Tanto «le ombre rosse» di Maselli passano in fretta, senza lasciare il segno, mentre la Mostra resta un presidio che conta.

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