Quarant'anni di carriera da reporter sul campo fanno di Fausto Biloslavo uno dei veterani del giornalismo di guerra italiano. Dall'Afghanistan degli anni Ottanta all'Ucraina di oggi, passando per le guerre maggiori e quelle dimenticate degli scorsi decenni, non c'è teatro in cui Biloslavo non abbia messo piede raccontando, con professionalità e coinvolgimento, storie di guerra, ma anche avventure umane profonde. Un'attività, la sua, di recente valorizzata dalla mostra Bearing Witness, realizzata all'Istituto Italiano di Cultura di New York, e dalla vittoria dal prestigioso premio Melvin Jones Fellow del Lions Club.
Il prossimo 26 settembre, presso la Fondazione delle Stelline a Milano, Biloslavo sarà uno dei relatori alla conferenza "Raccontare la guerra oggi" organizzata da ilGiornale.it e InsideOver con il patrocinio di Fondazione delle Stelline. Insieme a Biloslavo racconteranno le loro esperienze sul campo anche Alberto Negri, Giovanna Botteri, Marcello Foa e Lucia Goracci, moderati da Fulvio Scaglione. Con lui dialoghiamo della sua lunga e complessa esperienza sul campo e degli insegnamenti che tante sfide professionali così coinvolgenti gli hanno permesso di apprendere. Biloslavo, i suoi quarant'anni di servizio da reporter di guerra sono stati quarant'anni di testimonianze in prima persona.
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Possiamo dire che la mostra sulla sua carriera non poteva avere titolo più azzeccato?
"Sì, Bearing Witness significa infatti "testimoniare". Questo non è solo un lavoro, è innanzitutto la conseguenza di un grande impegno, quello a essere testimoni. Testimoni di qualcosa di doloroso, ma che è necessario raccontare: il lato più oscuro dell'umanità. Io, come tanti validi colleghi, ho sempre cercato di farlo, in un contesto che è notevolmente mutato. Anche sul fronte dei mezzi a disposizione. Sono partito con le macchine fotografiche a rullino e sono arrivato agli smartphone".
Cambiano le tecnologie, ma certamente non il rischio dello stare in prima linea...
"Assolutamente sì. In fin dei conti vale sempre il vecchio adagio di Robert Capa, secondo cui le immagini capaci di raccontare una guerra andavano prese da vicino, dalla linea del fronte".
Capa, il decano dei fotografi di guerra. Anche lei ha iniziato come fotogiornalista, giusto?
"Sì, era il 1982, avevo 21 anni e andai a documentare la guerra in Libano provocata dall'invasione di Israele. In quel caso la fortuna mi assistette, perché fui l'unico giornalista a documentare, durante la partenza dei membri dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) da Beirut verso il Nord Africa sulle celebri "navi bianche", il momento in cui a imbarcarsi era il suo leader Yasser Arafat". Fu l'inizio di una nuova storia del giornalismo di guerra italiano".
Che partì da un gruppo originario della sua Trieste...
"Un anno dopo, con Gian Micalessin e il compianto Almerigo Grillz, primo reporter a cadere in zona di guerra nel secondo dopoguerra nel 1987 in Mozambico, fondammo l'Albatross Press Agency. Con questa agenzia raccoglievamo fondi e finanziavamo i reportage in una fase in cui le principali redazioni ci erano ancora precluse. Erano tempi complessi e ci facemmo conoscere prima all'estero che in Italia. Nel frattempo, per realizzare il nostro sogno, facevamo di tutto: io lavoravo in un parcheggio a Grado, Gian consegnava carta igienica negli alberghi della regione, Almerigo, il più intellettuale, vendeva libri porta a porta".
Con Albatross realizzaste reportage in varie zone. Quale teatro ricorda con più nitidezza di quei caldi anni Ottanta?
"Senz'altro l'Afghanistan, in cui andammo nel 1983 attraversando la frontiera narrata nei suoi libri da Kipling. Un Paese che iniziai a raccontare durante la guerra anti-sovietica dei mujaheddin e in cui sono stato più volte, sino al ritorno dei Talebani al potere nel 2021". Allora era facile parlare di "guerre dimenticate".
Oggi, però, molti conflitti lo sono ancora, nonostante la tecnologia e Internet.
"Sì, le guerre spesso sono dimenticate perché politica, media e opinione pubblica scelgono consapevolmente di relegarle in un angolo. Pensiamo al caso emblematico del Donbass. Allora invece il fattore distanza incideva molto. Per entrare in certi teatri di guerra bisognava compiere vere e proprie imprese. Ricordo ad esempio quando per raccontare la guerra civile in Angola tra i guerriglieri dell'Unita e il governo centrale entrammo con un Dakota del 1943 pilotato da mercenari sudafricani nel Paese dopo esser decollati dal Congo".
Lei ha poi raccontato anche le guerre oltre la soglia della sua nativa Trieste, nell'ex Jugoslavia. Come furono i teatri di guerra degli anni Novanta?
"Molto intensi, furono anni di grandi violenza e importanti esperienze professionali in teatri complessi e difficili. Ricordo due episodi della fase finale di quei conflitti. Nel 1999, trovandomi a Bar, porto principale del Montenegro, per documentare i bombardamenti sulla Jugoslavia, assistetti a una vera e propria battaglia aeronavale tra caccia delle forze Nato e unità della marina jugoslava, che ingaggiavano gli aerei occidentali per farli staccare dagli schieramenti ed esporli al tiro dell'antiaerea e dei precisi missili terra-aria, che ricordo vividamente mentre danneggiavano un aereo della Nato, costretto a fare dietrofront verso l'Italia. Un'altra volta mi trovai, coi partigiani kosovari dell'Uck, in un'imboscata dei serbi. Di quell'occasione ricordo le raffiche di mitra e i colpi di mortaio che piovevano vicino".
Ha sentito più volte vicine minacce di questo tipo, in seguito?
"Sì, durante un'imboscata talebana nel 2001 mentre seguivo in Afghanistan l'Alleanza del Nord e più avanti, sentendo il tiro dei cecchini di Mosul e gli attacchi kamikaze di Sirte mentre tra Iraq e Libano raccontavo la caduta delle capitali delle bandiere nere dell'Isis".
Esperienze che non possono non segnare. Del resto, gli anni di questo primo scorcio di XXI secolo non sono stati privi di conflitti violenti. Ricorda alcune esperienze importanti nei suoi numerosi reportage?
"Sì, ricordo l'ingresso a Kabul il 13 novembre 2001, mio quarantesimo compleanno, con l'Alleanza del Nord dopo aver per giorni seguito l'avanzata coperta dai raid dei caccia F-18 e dei B-52 americani. O la grande cavalcata in Iraq, al seguito dei Marines, nel 2003. Prima dei raid sulla Libia nel 2011, ho avuto l'occasione di essere l'ultimo giornalista italiano a intervistare Muammar Gheddafi. E poi c'è l'Ucraina..."
La prima, grande guerra d'Europa dopo il secondo conflitto mondiale...
"Sì, un conflitto cruento in cui ho visto episodi che mi hanno segnato. Ricordo Popasna, l'inferno del Donbass, cittadina contesa tra Ucraina e Russia all'ultimo uomo. Nell’inferno di Popasna i soldati ucraini si chiamavano tra di loro “morituri” quando si davano i cambi in trincea segnandosi sulla mimetica e gli arti i cognomi per poter esser riconosciuti in caso di morte per l'esplosione di una bomba o una granata capace di dilaniare il loro corpo".
Momenti che, immaginiamo, segnano un reporter e lasciano aperta una domanda: quando ci si accorge di avvicinarsi a un limite invalicabile?
"Domanda fondamentale. Ci sono momenti in cui ci si dice che è meglio fare un passo indietro. Me ne sono accorto a Popasna e anche a Bakhmut, più di recente, dove non c’era anima viva. Talvolta ci si chiede se ne sia valsa la pena di spingersi in situazioni così a rischio. Ma questa professione impone un precetto fondamentale: la prima regola per raccontare la guerra è portare a casa la pelle e non esporsi a rischi inutili".
Essere testimoni, appunto. Essere testimoni e ricordarsi che della guerra si è i primi spettatori, non gli attori determinanti...
"Sì, tendo a distaccarmi da una certa concezione soggettivista del giornalismo. Siamo testimoni, non protagonisti, di situazioni al limite, eventi tragici e conflitti che vanno raccontati ma ricordandosi che a scrivere la storia sono i militari in trincea, i civili, coloro che per la guerra soffrono e si sforzano. Dai prigionieri di guerra alle famiglie in fuga, inoltre, ogni conflitto presenta un carico di sofferenze e dolore che va raccontato rispettandolo. Concentrandosi, spesso, sui dettagli.
Molto, della guerra in Ucraina, racconta ad esempio un piccolo orsacchiotto di peluche che ho visto, intriso di sangue, a Kramatorsk dopo un raid missilistico russo. Dice molto della violenza e della brutalità di un conflitto. E anche del fatto che in guerra ogni singolo oggetto, ogni singolo episodio porta con sé una storia che si può raccontare. Da testimoni".Partecipa all'evento del 26 settembre "Raccontare la guerra oggi": iscriviti al form
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