“Sarei potuta essere in carcere anch’io”

Pubblichiamo la lettera che Valentina Misseri ha scritto a Rino Casazza, autore del libro sul caso di Avetrana. Nella lettera la figlia di Michele Misseri reclama l'innocenza della mamma e della sorella

“Sarei potuta essere in carcere anch’io”

Pubblichiamo la lettera che Valentina Misseri ha scritto a Rino Casazza, autore del libro sul caso di Avetrana disponibile su Amazon. Nella lettera la figlia di Michele Misseri reclama l'innocenza della mamma e della sorella e accusa: "Se fossi stata a casa anche io avrebbero arrestato anche me".

Non ho mai creduto molto nei miracoli. Ma posso dire, invece, di essere una miracolata.

Questo perché se fossi partita solo un giorno dopo da Roma, dove mi trovavo, per andare ad Avetrana, adesso sarei sicuramente in carcere con mia sorella Sabrina e con mamma.

Dico questo perché anche io sarei andata assieme a loro dai carabinieri e poi a controllare la maturazione dell’uva della mia vigna, in un terreno che agganciava la cella telefonica che copriva anche la zona di San Pancrazio Salentino, un paesino vicino ad Avetrana. La stessa cella che aggancia molti luoghi in quella zona, visto che per dimensioni Avetrana non è certo Milano o Roma. E che aggancia quindi anche, e non solo, la zona del pozzo dove è stato trovato il corpicino di Sarah. Per gli inquirenti la “prova” che mia madre e mia sorella sarebbero andate lì, al pozzo e non alla vigna, a controllare se il corpo di Sarah fosse stato occultato bene da mio padre. “Prova”, quella in realtà del controllo del livello dello zucchero negli acini d’uva, che avrebbe “inchiodato” anche me. Oggi, per questa semplice attività, che è una consuetudine di chi ha una vigna, sarei in galera.

Ma se sono stata miracolata non lo devo ad una entità superiore.

Lo devo ad una persona: si chiama Stefano ed è mio marito.

In quei giorni stavo sostituendo una persona per un lavoro in portineria e il mio contratto sarebbe scaduto l’8 settembre. Nei giorni precedenti, appena appresa la notizia della scomparsa di Sarah, volevo partire immediatamente e a tutti i costi per Avetrana. Ma mio marito mi fece riflettere: mi consigliò di rispettare gli impegni che avevo preso dal punto di vista contrattuale perché, andandomene, avrei costretto, rovinandole le uniche vacanze, a far tornare la persona che stavo sostituendo. Mancavano pochi giorni alla fine del mio impegno, le ricerche erano già partite, e a parte il mio sostegno dal punto di vista emotivo, sarei servita a poco precipitandomi giù.

Quei giorni di attesa fino all’8 settembre, furono interminabili. Piangevo tutte le notti e di giorno “facevo la forte” davanti alle persone che dovevo ricevere in portineria, ma appena ero sola scoppiavo di nuovo a piangere e lo stesso facevo con mio marito.

Volevo essere vicina a zia Concetta, alla mia famiglia. Finalmente arrivata ad Avetrana, ricordo che lasciai la valigia a casa e andai con mia madre direttamente da zia Concetta. Ricordo che c’era già una troupe televisiva di un canale locale fissa davanti a casa sua. Per noi, pensavamo, era importante la presenza dei giornalisti perché più si parlava di Sarah e meglio era, perché la volevamo a casa il più presto possibile.

Nessuno, e dico nessuno, conosceva Sarah meglio di me, Sabrina e Antonella, un’altra cugina di Sarah, sua coetanea, figlia di nostra zia Dora. Ricordo la rabbia di Sabrina quando si parlava di una possibile pista su Facebook, per la quale Sarah sarebbe stata adescata via social. Sabrina continuava a ripetere in modo deciso di lasciar perdere e di non seguire quella pista perché Sarah, da sola, non sapeva usare il computer.

Strano comportamento per chi poi è stata considerata l’assassina di nostra cugina. Se fosse tale, avrebbe avuto tutto l’interesse a far proseguire gli inquirenti su quella pista. Così come, quando venne ipotizzato che Sarah avrebbe potuto accettare un passaggio da qualche sconosciuto, Sabrina insisteva in modo fermo sul fatto che Sarah mai e poi mai sarebbe salita sulla macchina di qualcuno che non conosceva, visto che a malapena accettava dei passaggi da chi conosceva. Questo perché Sabrina e mia madre avevano - e hanno - la coscienza pulita e speravano di riabbracciare Sarah al più presto.

Ricordo che in quei giorni, appena alzate, la prima cosa che facevano era quella di andare a casa di zia Concetta. A casa nostra non si pensava a nient’altro che a Sarah: la gestione della casa, da tutti i punti di vista, era ovviamente trascurata. E quello è stato anche l’unico periodo in cui abbiamo trascurato nostro padre, del resto zia Concetta aveva bisogno di noi e noi molto spesso eravamo da lei per aiutarla. E a veder bene, ricordo chiaramente che l’unico che invece non è mai andato a casa di zia Concetta - tranne che per il funerale del nonno di Sarah - era proprio papà.

Evidentemente aveva la coscienza sporca. Ricordo che sia a pranzo, sia a cena mangiavamo al massimo un panino e col passare dei giorni ci chiedevamo se a Sarah stessero dando del cibo a sufficienza. Oppure quando le giornate stavano diventando più fredde, ci chiedevamo se le avessero dato delle coperte.

Di fronte a queste parole, l’unico che non diceva nulla era proprio papà.

Mi chiese solo una cosa, un giorno: “Ma secondo te troveranno mai chi ha preso Sarah?” Io gli risposi che ci sarebbe voluto del tempo, le indagini stavano andando avanti, ma alla fine li avrebbero trovati.

Sono passati quasi dodici anni da allora. E in tutti questi anni siamo state giudicate da tutti.

Per quanto amara, è la semplice cronaca dei fatti: la cronaca di come è avvenuta la cronaca.

Ricordo le trasmissioni al mattino, al pomeriggio, di sera, a notte inoltrata, dove tutti parlavano in continuazione della mia famiglia. Tutti avevano qualcosa da opinare.

Presentatori, attori, mogli di calciatori, politici, sacerdoti, suore, passanti. Tutti a parlare - male - di noi. Poche le voci fuori dal coro, come quelle del Prof. Natale Fusaro, della criminologa Roberta Sacchi e poi del Generale Luciano Garofano. Voci che venivano regolarmente massacrate sui social. Una delle rarissime vicende nelle quali il diritto al dissenso, rispetto a quello che era divenuto uno schema ormai, non era praticamente concesso. Se in televisione di solito funziona il botta e risposta, nel nostro caso c’erano solo botte. Invece, per essere popolari, per riscuotere “successo”, bisognava dire che eravamo una famiglia di merda. L’applauso era garantito.

Ricordo un politico leghista - che ora non c’è più - dire che io, mia madre e mia sorella eravamo delle merde. Come detto, immancabile è arrivato l’applauso del pubblico anche per lui, ormai un riflesso condizionato. Ricordo il conduttore di un programma televisivo che ci definì “una famiglia disgustosa”. La mia famiglia non è mai stata disgustosa.

E per quanto possa sembrare strano dirlo oggi, non lo era stato nemmeno mio padre: fino al giorno in cui ha fatto quello che ha fatto a Sarah, confessandone successivamente l’uccisione, per poi subito dopo far ritrovare il suo corpo senza vita. Fino a quel terribile momento ho sempre detto di aver avuto i migliori genitori del mondo. E non lo pensavo solo io: fino a quel momento, Sarah voleva farsi adottare da noi.

Nostro padre, con quello che ha fatto all’improvviso, ha devastato le nostre vite, quelle dei miei zii, tutto quello che di importante e di bello c’era stato, nella nostre vite tra Italia e Germania.

E la cosa più terribile è che ha tolto la vita a Sarah, mosso dalle più orribili e improvvise pulsioni. Ma noi, mia madre, mia sorella ed io, non c’entriamo nulla. Eppure già prima del processo siamo state condannate e derise.

Ripenso a un giornalista, non di secondo piano, del Corriere della Sera, uno dei maggiori quotidiani italiani, che in un articolo scrisse - non disse in uno studio tv, ma scrisse, cosa che dovrebbe prevedere una riflessione superiore a quella di una diretta televisiva - queste righe: “Lei” - riferito a mia sorella Sabrina - “è la ragazza del dopo mezzanotte, grassottella, collo taurino, braccia da camallo, quella con cui non ti faresti mai vedere in pizzeria, ma che dopo la terza birra e a ora tarda non ti dispiace più come prima.” In pochissime righe: machismo, sessismo e body shaming. Chiudendo poi queste “considerazioni” - non credo in linea con i principi etici dell’Ordine dei Giornalisti - con un “come siamo noi maschi”.

Del resto del nostro fisico si è parlato tanto!

E non lo hanno fatto solo degli uomini. Una giornalista disse anche che noi eravamo invidiose perché eravamo brutte e invece nella famiglia di Sarah erano tutti belli. Insomma siamo state bullizzate. Ma non alle medie, in età adulta… e da altri adulti! Alle medie può succederti, è orribile. Ma alle medie si è ragazzini, immaturi. E non si ricoprono ruoli pubblici, non si bullizza - per quanto possa essere odioso tra compagni di scuola - di fronte a una platea enorme, in un processo che era già iniziato sui media. Siamo state bullizzate, per il nostro aspetto, in spazi molto seguiti e da persone famose, che magari facevano anche parte di associazioni contro il bulling.

Anche Sarah era stata bullizzata. Ne soffriva tantissimo. Noi la capivamo e le siamo state sempre accanto. A Sarah dicevano che era troppo magra, troppo bionda, troppo pallida e non indossava abiti firmati. Noi le dicevamo di non dare retta: “Sarah, sei bellissima!” le ripetevamo.

C’era in particolare una ragazzina, che l’aveva presa di mira, insieme ad altre, formavano un gruppetto che lei capeggiava e che la prendeva in giro pesantemente. Sarah ne soffriva molto.

Dopo la sua morte ho visto quella stessa ragazzina, in televisione, dire di essere un’amica di Sarah. Tutti andavano in televisione. Probabilmente la presenza dei media che c’è stata su Avetrana non è mai stata raggiunta in altri fatti di cronaca. Così, d’accordo con zia Concetta, che ci ha chiesto di aiutarla con i media, mia sorella si è esposta molto ai mezzi di comunicazione.

A un certo punto la situazione era divenuta impossibile.

Ho visto dei giornalisti entrare dentro casa nostra e litigare in modo animato su chi ci doveva intervistare per primo. Poi qualcuno di questi ha avuto anche il coraggio di dire che Sabrina gestiva un’agenda di interviste. Sabrina aveva un’agenda, certo.

Ma era quella degli appuntamenti del suo lavoro, per i trattamenti estetici. Se qualche giornalista le chiedeva disponibilità per un’intervista, doveva controllare che non interferisse con il suo lavoro. Sabrina, come tutti noi, lavorava.

Qualcuno ha detto, anche in televisione, che noi ci siamo fatte pagare per le interviste. Ma è assolutamente falso. Non abbiamo mai preso un centesimo dalle interviste che abbiamo fatto. Al contrario ho saputo che c’è chi ancora riceve dei soldi per delle ospitate o per delle interviste. Non giudico, ma non siamo di certo noi. Non riusciremmo mai a farlo.

Nonostante siano passati quasi dodici anni, a volte mi capita di svegliarmi in piena notte e pensare che tutto quello che è successo sia semplicemente un incubo. È una sensazione che dura pochi secondi. Forse è un desiderio inconscio. Poi svanisce e realizzo che tutto quello che è capitato alle nostre famiglie purtroppo è vero.

Penso a Sarah tutti i giorni. Penso anche a zia Concetta, al suo dolore.

Proprio per la tragedia che è capitata non riesco a capacitarmi del fatto che a lei vada bene la realtà che è uscita dal processo. Lei sa perfettamente quanto volevamo bene a Sarah. Era una parte della nostra famiglia. Ogni tanto penso che zia Concetta sia, in un certo senso, costretta e credere a quella verità processuale.

Che non è la verità.

Durante il processo di primo grado, mia madre e mia sorella erano nel gabbiotto, cercavano disperatamente il suo sguardo. Ma lei non le ha mai guardate. Eppure basta addentrarsi un minimo nelle carte del processo e delle indagini per capire che mia madre e mia sorella sono in carcere e sono state condannate per dei pettegolezzi di paese.

Non ci sono prove, ma addirittura non ci sono indizi veri e propri.

Le testimonianze sull’orario d’uscita da casa di Sarah, raccolte nei primi giorni dalla scomparsa, quando tutti pensavamo fosse viva, sono un alibi per mia sorella e per mia madre. Così come i tabulati telefonici degli sms di Sabrina. Ma, a distanza di tempo dai fatti - è qualcosa che sembra paradossale, un ricordo dovrebbe essere più vivo in prossimità dei fatti, non il contrario - gli orari cambiano. A processo cambiano, rispetto ai verbali e alle interviste in prossimità della scomparsa. Il fatto poi che Sarah aveva detto che sarebbe uscita alle 14.30 da casa per raggiungere Sabrina e andare al mare e che sua madre abbia confermato questo orario nella denuncia ai carabinieri, a processo diventa una bugia di Sarah. Alla quale purtroppo, non possiamo più chiedere di questa bugia ipotizzata dalla Procura (ma mai provata) dato che Sarah non c’è più.

E i tabulati telefonici?

Diventano un sotterfugio degno della peggiore mente criminale, quella di Sabrina. Del resto mia sorella a volte è considerata una sciocca e volte una fredda mente diabolica. Per non parlare della “prova” che ha portato alla condanna all’ergastolo di mia madre. Un sogno, il sogno di un fioraio. Ma cosa è successo alla nostra Giustizia?

In qualsiasi paese civile mia madre e Sabrina non solo non sarebbero state condannate, ma forse non sarebbero state nemmeno portate a processo come imputate.

Una volta tanto che un colpevole, a parte per un delirante breve periodo, ammette di essere colpevole - e da anni mio padre continua a gridare la sua colpevolezza - succede che non viene creduto.

Eppure tutte le prove portano a lui.

È lui che fa trovare il telefonino, il corpo senza vita di Sarah, le sue chiavi di casa, la batteria del cellulare e il punto dove ha bruciato lo zainetto con i vestiti e gli auricolari.

È lui che confessa con numerosi particolari.

È un caso più unico che raro!

Purtroppo al processo hanno contato altri fattori. La costruzione dei media di noi come streghe, rispetto ai fatti. Con la costruzione della figura della vittima, all’interno della sua famiglia, incentrata su nostro padre. Nostro padre ha una mimica facciale e un modo di parlare che fa quasi tenerezza. È stato uno dei motivi che ha facilitato nel farlo passare come una vittima agli occhi dell’opinione pubblica.

E non solo. Si è affermata col tempo l’idea che non sarebbe mai stato capace di un crimine così terribile. Che invece ha compiuto.

In questa costruzione della vittima e di noi, donne dominanti della famiglia, si è arrivati a dire che a lui davamo da mangiare i nostri avanzi.

La realtà è che a casa nostra si è sempre cucinato un po’ di più, perché se avanza qualcosa lo diamo ai nostri animali, un cane e dei gatti. Non credo che prediligere ogni tanto degli avanzi dalla propria tavola per i propri animali domestici a delle scatolette, sia una prova certa di colpevolezza. Ma anche questo è stato messo nel frullatore mediatico - processuale per far passare mio padre come il “Cenerentolo” di casa Misseri, dove io e mia sorella eravamo le “sorellastre” e nostra madre la “matrigna” cattiva.

Nei confronti di mia madre c’è stato poi un accanimento, direi “teatrale”.

È stato fatto di tutto per umiliarla e per umiliarci, compreso l’arresto show. Solitamente gli arresti vengono fatti la mattina presto o di notte. Ma non per mia madre. Lei doveva essere esibita davanti a tutta quella gente che le urlava contro di tutto. In un’esaltazione della folla quasi isterica, mia madre è stata prelevata dai carabinieri a casa la sera, messa alla gogna, tra grida e sputi. In quella massa di persone c’erano mamme con i bambini in braccio e addirittura i testimoni del processo. C’erano Petarra, Mariangela Spagnoletti, l’ex fidanzata di Ivano Russo e l’onnipresente Anna Pisanò.

Credo, come ha anche sottolineato la giornalista Maria Lucia Monticelli di Chi l’ha visto?, che sia stata una delle pagine più basse di tutta questa allucinante vicenda.

Sono d’accordo che le sentenze vanno rispettate. Certo.

E infatti mamma e Sabrina stanno scontando in carcere una pena ingiusta.

Ma penso che i magistrati sono delle persone e come tali possono sbagliare. Quindi rispettare una sentenza non vuol dire avere il divieto di poterla criticare, in modo serio, punto su punto.

Così come mia sorella e mia madre, seppur condannate, devono avere il diritto di proclamarsi innocenti, senza che questo comporti nulla per loro. Ci troviamo di fronte ad un gravissimo errore giudiziario. In Italia ce ne sono stati e ce ne sono, non è una rarità purtroppo. E la cosa che fa più male è che quando un caso diventa mediatico e Avetrana può essere considerata una “svolta” negativa, l’errore giudiziario è spesso dietro l’angolo.

Ma è evidente che non si tratta di un problema solo mediatico o episodico, visti i numeri. In Italia si parla di circa mille persone l’anno in carcere o ai domiciliari, da INNOCENTI. Questi mille sono i “fortunati” che alla fine riescono a dimostrare la propria innocenza. E poi ci sono tantissime persone come mia madre e mia sorella che, seppur condannate senza prove incontestabili, sono ancora in carcere perché i giudici non credono nella loro innocenza.

Prima ancora di porsi il principio della colpevolezza o non colpevolezza.

Eppure si è sempre detto che “è meglio un colpevole fuori che un innocente dentro” ma quello che noto è che negli ultimi anni vale di più il concetto “nel dubbio, tutti dentro”.

Basta pensare che nel nostro caso a fronte di un reo confesso, nostro padre, che si dichiara colpevole, ci sono state una marea di condanne.

In carcere sono finite altre persone innocenti come mio zio Carmelo che per una semplice telefonata è finito in galera e mio cugino Mimino che purtroppo è morto nel bel mezzo di questo lunghissimo iter processuale. Anche loro stritolati dall’ondata persecutoria, mediatica e giudiziaria.

In ogni caso, nonostante il passare degli anni, spero ci sia finalmente uno sguardo diverso, senza preconcetti, su quello che è realmente successo. Che ci siano opere d’informazione che restituiscano la verità di tutta questa vicenda, aldilà della forte pressione dei media che ha influenzato pesantemente tutto il processo. I fatti sono lì, a parlare da soli.

Purtroppo in questi tristi anni, a parte alcuni articoli di Maria Corbi, solo un film documentario ci ha restituito la dignità di persone, mettendo semplicemente in fila gli avvenimenti per come sono andati, nelle loro evidenti contraddizioni: si tratta di “Tutta la Verità – Il delitto di Avetrana” di Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli. Quello che mi auguro è che anche grazie a un lavoro come questo, la verità venga sempre più a galla, che si possa finalmente arrivare alla revisione del processo, sulla quale tanto si stanno impegnando il Prof. Coppi e l’Avv. Marseglia.

E che chi sa, anche tra gli inquirenti della prima ora, parli e dica tutto quello di cui è a conoscenza per ristabilire la verità dei fatti.

Del resto, come ho detto all’inizio, non credo molto nei miracoli. Credo di più, nonostante tutto, nella volontà delle persone. In carcere ci sono due innocenti, mentre un colpevole, che non viene ascoltato, chiede di scontare la sua pena.

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