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Gli "autoanticorpi" che aggravano il Covid: ecco perché

Il Covid-19 è più grave nei soggetti i cui autoanticorpi neutralizzano gli interferoni, barriera fondamentale nel bloccare il virus: ecco quali sono gli approcci terapeutici

Gli "autoanticorpi" che aggravano il Covid: ecco perché

La ricerca continua a fare passi da gigante sul fronte Covid-19: sono stati scoperti i cosiddetti autoanticorpi che determinano i casi più gravi della malattia. A renderlo noto sono stati l'Asst Spedali Civili di Brescia e l'Università degli Studi di Brescia che hanno collaborato alla ricerca internazionale che ha permesso di individuare uno dei meccanismi fondamentali del coronavirus.

Cosa dice la ricerca

Si tratta di una scoperta dalle potenziali ricadute diagnostiche e terapeutiche: questi autoanticorpi neutralizzano alcune molecole, gli interferoni, che hanno un ruolo essenziale nella corretta risposta immunitaria al Covid. Le persone che li hanno, o che hanno difetti genetici che condizionano l'espressione di questi alleati della nostra difesa, tendono ad ammalarsi più gravemente se incontrano il Sars-Cov-2. Lo studio è stato pubblicato su Sciene Immunology ed ha preso in esame i campioni di oltre 40mila soggetti provenienti da tutti i continenti dove è stata identificata questa problematica che ha determinato un decorso più severo della malattia. Questi autoanticorpi neutralizzano gli interferoni di tipo I, tra le molecole più importanti della risposta immunitaria.

Chi viene colpito e come si cura

Nella popolazione generale, la prevalenza di autoanticorpi anti-interferoni di tipo I nel sangue raddoppia dopo i 65 anni e circa il 20% di tutti i casi fatali di Covid-19 sono associati alla presenza di questi autoanticorpi neutralizzanti. Il riconoscimento precoce soprattutto tra gli anziani e nei soggetti che già presentano mutazioni che alterano il normale funzionamento del sistema immunitario, potrebbe permettere l'identificazione dei pazienti più a rischio e aprire le porte a nuovi approcci terapeutici basati sull'utilizzo di anticorpi monoclonali. "Questi risultati - sottolineano Paolo Bonfanti, professore di Malattie infettive di Milano-Bicocca, e Andrea Biondi, professore di Pediatria dello stesso ateneo, ad AdnKronos - potrebbero avere implicazioni terapeutiche molto importanti: anzitutto la ricerca degli anticorpi anti-interferone potrebbe divenire un test di screening vista la discreta frequenza di questi autoanticorpi nella popolazione generale con il progredire dell'età".

"Vaccinazione prioritaria"

Prima che si possa sviluppare una terapia ad hoc, comunque, l'unica arma per poter evitare questa problematica rimane il vaccino. "In secondo luogo - proseguono gli esperti - i pazienti con autoanticorpi contro l'interferone di tipo I dovrebbero essere vaccinati contro Covid prioritariamente". Nel caso in cui ci si trovasse di fronte a persone non vaccinate con infezione da Sars-Cov-2 in cui fosse rilevata la presenza di questi autoanticorpi, si dovrebbe ricorrere al ricovero immediato per una corretta gestione clinica. "Il trattamento precoce con anticorpi monoclonali potrebbe essere somministrato in questi pazienti prima che compaiono sintomi di polmonite da Covid".

Lo studio è nato nel marzo 2020, durante i primi mesi della pandemia, quando un gruppo di scienziati italiani e americani si sono uniti al fine di studiare le cause dell'estrema variabilità della malattia. Il 'team' fa capo a 3 grandi istituti di ricerca, rinomati a livello mondiale nel panorama della ricerca e della salute pubblica, quali il National Institute of Health (NIH) di Washington, la Rockefeller University di New York e l'Università di Parigi in cui l'Italia ha preso parte insieme ad altre 38 nazioni.

Tra i gruppi italiani, come detto, l'Asst-Spedali Civili di Brescia e l'Università di Brescia sono stati tra i protagonisti insieme ad altri istituti tra cui Università di Milano-Bicocca, Irccs Ospedale San Raffaele, Milano, Asst Ospedale San Gerardo di Monza e Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia.

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