“Il Baffo” bruciato vivo “per noia” dai suoi due giovani aguzzini

Emergono novità terribili dalle intercettazioni e dagli interrogatori dei due giovanissimi imputati, che si rimpallano le responsabilità del delitto

“Il Baffo” bruciato vivo “per noia” dai suoi due giovani aguzzini

Nuova luce e nuovi agghiaccianti dettagli relativi al brutale omicidio di Ahmed Fdil, soprannominato “il Baffo”, un clochard di 64 anni rimasto ucciso in un incendio che lo ha sorpreso nel sonno all’interno di un’automobile nella notte del 13 dicembre scorso.

Quella vettura abbandonata a Santa Maria a Zevio (VR) era il suo rifugio di fortuna, ma si è trasformata nella sua bara, data alle fiamme da due ragazzini di 13 e 17 anni, semplicemente “per noia”, stando a quanto si può rilevare dai verbali delle interrogazioni a cui i giovani sono stati sottoposti dagli inquirenti: “Siamo andati a Santa Maria perché non avevamo niente da fare…Davamo molto fastidio a quel signore, lo facevamo per noia”.

Cambiano dunque completamente le caratteristiche della scena ricostruite dopo le prime indagini, ed acquistano un nuovo significato anche le parole che il clochard aveva pronunciato ad un conoscente poche ore prima dalla sua morte: “Trovatemi un posto dove passare la notte, vi prego. Anche con le capre”. L’uomo aveva quindi paura di qualcosa, o di qualcuno, magari proprio dei ragazzini di 13 e 17 anni che sono poi stati inquisiti per il delitto: i due, entrambi cresciuti nel nostro paese, sono di origine marocchina l’uno e dell’est europa l’altro.

Inquietanti, a maggior ragione se si pensa all’età dei responsabili della brutale uccisione, i messaggi intercettati e le rivelazioni emerse in via di interrogatorio e rivelate in parte dal Corriere del Veneto. "Il tuo sogno l’hai realizzato quando eravamo dal kebabbaro, cosa mi hai detto? «Ho realizzato il mio sogno di ammazzare una persona»", scrive il più grande dei due all’altro. Ma ora il tredicenne allontana le accuse: "Il mio sogno era ammazzare un gatto".

"Conoscevo «il Baffo» perché lo vedevo spesso al mercato che faceva l’elemosina. In passato assieme al mio amico sono andato a infastidirlo e il mio amico gli diceva parole tipo «barbone di merda». Quella sera ci siamo incontrati per caso e l’idea di incendiare quei pezzi di carta era sua. Abbiamo preso le salviette, poi siamo andati nel parcheggio dove c’era «il Baffo». Io ho acceso un pezzo e l’ho lanciato in avanti verso la macchina ma il pezzo che avevo bruciato è caduto a terra, ne sono certo. Sono altrettanto certo che il mio amico ha buttato il fazzoletto acceso all’interno dell’auto. In seguito siamo tornati verso Zevio e abbiamo sentito le sirene delle ambulanze. Poi siamo andati al bar e abbiamo visto alla televisione la notizia. Ci siamo messi d’accordo di non dire nulla". Queste le rivelazioni fatte agli inquirenti dal diciassettenne, col malcelato intento di allontanare da sé il peso della colpa e le consequenziali pene previste.

I due non fanno però che rimpallarsi le responsabilità dell’omicidio, dato che il più piccolo presenta una versione diversa dei fatti: “Ricordo benissimo il momento in cui lui ha incendiato la salvietta di carta e l’ha buttata dentro l’auto di Baffo. Il pezzo di salvietta che ho incendiato io mi si è incendiato tra le mani e non sono riuscito a buttarla dentro. L’idea è stata sua”.

L’unico filo conduttore delle versioni

fornite è che nessuno dei due ragazzini pensava che la bravata potesse concludersi in modo così tragico, ma questo non basterà per riportare in vita l’uomo o per levare dalle loro coscenze il peso di una colpa così grande.

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