Dallo zero al 4,25% in un anno. Un aumento così repentino dei tassi d'interesse da parte della Banca Centrale Europea non si era mai visto e non se ne trova traccia nella storia della politica monetaria. Il sospetto che a Francoforte sia scappata la mano è sempre più diffuso. Come se i banchieri dell'Eurotower, in una crisi di onnipotenza, si fossero dimenticati i limiti della politica monetaria: se utilizzata come unico strumento di governo dell'economia può portare a risultati opposti a quelli desiderati.
L'aumento dei tassi - che erano rimasti fermi a zero dal 2016 e comunque sotto all'1% fin dal 2012 - ha colpito sia coloro che sono già indebitati a lungo termine a tasso variabile, sia coloro che intendono farlo ex novo, sia quelli che devono indebitarsi a breve per acquistare o usufruire di beni durevoli. Per fare un esempio (calcolato dalla Fabi) la rata di mutuo pluriennale a tasso variabile in questi ultimi 12 mesi è aumentata fino al 75%. Chi la deve pagare, inoltre, se la deve vedere anche con l'inflazione, che secondo l'Istat ha ridotto il potere d'acquisto dei salari del 6 per cento.
Si potrebbe andare avanti, ma già così è chiaro quanto alti siano i costi indotti dall'aumento dei tassi cavalcato dalla Bce. D'altra parte non è che a Francoforte comandi un gruppo di sadici banchieri centrali. Essi fanno il loro dovere di gestori della politica monetaria: lo statuto della Bce dice quello. Il loro lavoro è tenere l'inflazione dell'eurozona intorno al 2%. Quando era inferiore abbassavano i tassi a zero per farla salire; ora che è intorno al 6% devono farla scendere. Prima, quando facevano la gioia di governi come il nostro acquistando titoli pubblici a mani basse e permettevano di accendere un mutuo ipotecario ventennale allo 0,5%, quegli stessi banchieri erano sicuramente più popolari di adesso che, invece, devono tirare la corda. Il punto è che non spetta a loro occuparsi della crescita: non è nello statuto. Lo stimolo alla domanda o all'offerta, in una situazione di contrazione monetaria, deve venire dalla politica fiscale ed economica, nazionale ed europea. Ma sappiamo bene quanto l'architettura comunitaria sia deficitaria su questo aspetto, con l'unica recente eccezione del Next Generation Eu.
Dopodiché, proprio per questo motivo, dato il contesto in cui è inserita, la Bce non può ignorare le conseguenze economiche delle proprie scelte monetarie. Né fingere inconsapevolezza rispetto al loro significato politico. Per cui, di fronte alla leva dei tassi, che richiede almeno 12 mesi per trasmettersi all'economia, e davanti a un'inflazione già quasi dimezzata rispetto alla fine del 2022, fermare qui la stretta monetaria pare l'unica scelta realmente neutrale per la banca centrale. Mentre andare oltre, a settembre, rischia di essere una medicina peggiore del male, provocando una seria recessione, come ha ribadito ieri Confindustria.
Medicina giustificata solo da quella cultura nord-europea e tedesca in particolare che preferisce un Pil in calo al rischio di un'inflazione un po' più alta e un po' più a lungo. Legittima posizione politica interna, che però non deve avere niente a che fare con i banchieri centrali europei.
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