La caccia

Cinquanta anni fa l'omicidio di Luigi Calabresi, arrivato dopo un quotidiano e pubblico linciaggio. Vittime con lui di una campagna d'odio furono i due magistrati che condussero l'inchiesta sul suicidio di Pinelli. Come dimostra una lettera che "Il Giornale" pubblica per la prima volta

La caccia

«Mostruosità civile». «Infamia morale». È un giorno di cinquantuno anni fa quando due giovani avvocati milanesi decidono che la misura è colma. Luglio 1971, la strage di piazza Fontana è una tragedia ancora fresca. Nella città convulsa della contestazione si consuma un altro dramma: il linciaggio pubblico, quotidiano, del commissario Luigi Calabresi, che l'ultrasinistra e i salotti progressisti indicano come l'assassino dell'anarchico Giuseppe Pinelli, morto in questura tre giorni dopo la strage. Assieme al linciaggio del poliziotto, che culminerà nel maggio 1972 con la sua uccisione, se ne consuma un altro: parallelo, brutale, corollario inevitabile delle accuse a Calabresi. Quello di Giovanni Caizzi e Antonio Amati, i due magistrati che hanno indagato sulla fine di Pinelli, e che hanno concluso che l'anarchico si è ucciso, buttandosi dalla finestra della stanza al quarto piano della Questura dove lo stavano interrogando. È una conclusione che la sinistra non può accettare. Su Caizzi e Amati piove di tutto. Insulti, minacce. Lodovico Isolabella e Massimo De Carolis sono avvocati, ma anche esponenti di spicco della Democrazia Cristiana milanese. E decidono di mettere nero su bianco la loro indignazione per la «infamia morale» in corso ai danni dei due giudici.

La lettera non sortisce alcun effetto, liquidata in poche righe nelle cronache locali. Nelle settimane scorse, quando il cinquantesimo anniversario dell'assassinio di Calabresi costringe a rivisitare quei giorni, Isolabella recupera in un cassetto la vecchia lettera. È un documento che racconta molto sul clima che accompagnò e rese possibile la persecuzione di Calabresi, il conformismo trasversale che dietro allo slogan «La strage è di Stato» portò a criminalizzare innocenti servitori dello Stato. Come i giudici Caizzi e Amati e la loro, si legge nella lettera, «severa, coraggiosa, non propagandata ma anzi reietta fatica di persone libere e oneste».

La colpa dei due: avere - Caizzi come pubblico ministero e Amati come giudice istruttore - concluso che Pinelli si era buttato. «Invano il rappresentante del pm aveva avuto modo di sfatare volta a volta e con puntuale precisione quelle false notizie diffuse nel pubblico per inquinare la verità (e destinate tuttavia, a poco a poco, a radicarsi e diventare assiomatiche)». Poco conta che il documento chiave, la perizia autoptica, sia stata sottoscritta anche dal medico legale indicato dalla famiglia di Pinelli, Franco Mangili, e concluda che «le lesioni si accordano con la modalità lesiva da precipitazione descritta in atti». Irrilevante la considerazione che spinge i due magistrati a escludere che Pinelli sia stato pestato e poi buttato, visto che «la stanza in questione si trova esposta alla possibile osservazione da parte di chi abita gli ultimi piani dello stabile che fronteggia la questura», e che «non era velata da tende o da persiane. Tutto questo non conta per il «gruppo di uomini di cultura» che, sull'Espresso del 13 giugno 1971 prende di mira Caizzi e Amati, parlando di «indegna copertura», invocando «una ricusazione di coscienza rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni» e chiedendo «l'allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini».

Il documento che chiede la cacciata di Caizzi e Amati raccoglie rapidamente adesioni illustri: Lelio Basso, Ferruccio Parri, alti dirigenti della Resistenza. Adesioni «captate», scrivono i due avvocati milanesi, a un documento che è «perno di una macchinazione aggressiva contro un ganglio vitale dello Stato e contro gli uomini che - non piegandosi al vento che tira ma seguendo l'imperativo della verità alla luce della loro coscienza - tentano ancora di mantenerne integre le funzioni». «È un perno la cui lega consiste in bassezza morale e inesattezza storica».

L'intervento di Isolabella e De Carolis cade nel vuoto. Gli attacchi contro i due giudici continuano. Anche dall'interno del palazzo di giustizia. Il sindacato degli avvocati e procuratori scrive che «l'archiviazione del procedimento ha dato adito a ogni sorta di perplessità e sospetti» tali addirittura da coinvolgere «la credibilità delle istituzioni democratiche». Magistratura Democratica, la corrente delle toghe di sinistra allora agli albori, parla di «violazioni di legge verificatesi nella fase istruttoria sulla morte di Pinelli» e attacca «una prassi giudiziaria caratterizzata da collusioni, complicità, prevalere della ragion di Stato sulle ragioni di giustizia».

Le toghe rosse di Md non sono le sole a sposare, in quei mesi, la tesi del «delitto di Stato». L'indagine sulla morte di Pinelli chiusa da Caizzi e Amati (pochi anni dopo una inchiesta bis, condotta dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio, confermerà anch'essa l'innocenza di Calabresi) viene di fatto soppiantata da un processo parallelo. È quello nato dalla denuncia che Calabresi, ormai logorato da accuse e insulti, ha avuto la cattiva idea di spiccare contro Lotta Continua, il foglio dell'ultrasinistra che ogni giorno gli dà dell'assassino. Il processo a Pio Baldelli, direttore del quotidiano, si trasforma in una inchiesta bis sulla morte di Pinelli: del quale viene anche ordinata l'esumazione. Quando il 15 ottobre 1970 il povero Calabresi deve andare in aula a deporre nel processo contro i suoi calunniatori si trova quasi trasformato in imputato, in un'aula stracolma di anarchici che lo insultano e lo sbeffeggiano nell'indifferenza del giudice Carlo Biotti. Invano il difensore del commissario, Michele Lener, chiede al giudice di intervenire. Ma Biotti risponde: «Indubbiamente è un oltraggio. Ma come si fa a arrestare sessanta, settanta persone?». Così l'udienza va avanti, mentre nei corridoi estremisti e polizia si picchiano, e dentro Calabresi cerca di dare la sua versione: «Sarà stata mezzanotte e mezza quando si sentirono rumori indistinti provenienti dalla mia stanza, poi un grido, un tonfo. E poi alcuni sottufficiali che correvano per il corridoio gridando si è buttato"». Nell'aula è il finimondo, «assassino, non è vero» «buffone». Ma Biotti lascia proseguire l'udienza con l'aula trasformata in piazza e la vittima in accusato.

Poco dopo salta fuori che il giudice la sua idea se l'è già fatta. Lener, l'avvocato di Calabresi, denuncia che Biotti - di cui è buon amico - un giorno lo ha chiamato, e gli ha detto piatto piatto che secondo lui Pinelli è stato ammazzato in questura con un colpo di karatè al bulbo spinale. Lener ricusa il giudice, Biotti finisce sotto inchiesta, Magistratura democratica insorge a sua difesa. Ma Biotti deve lasciare il processo che passa a un altro magistrato, Antonino Cusumano.
Il 23 ottobre 1976 il giudice Cusumano condanna Pio Baldelli a un anno e tre mesi di carcere per diffamazione aggravata nei confronti di Calabresi. Ma per Luigi Calabresi è una vittoria postuma.

Quattro anni prima il militante di Lotta Continua Ovidio Bompressi gli ha sparato alla nuca mentre usciva di casa per andare a lavorare. In questura, come tutti i giorni, senza scorta, sapendo perfettamente quel che lo aspettava.

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