Cancel culture, il declino di una moda ideologica

Quando negli Stati Uniti, a metà degli anni Dieci del nuovo secolo, partì l'onda lunga della cultura woke un invito a "state all'erta" di fronte alle ingiustizie sociali e razziali era facile immaginare che da lì a poco si sarebbe abbattuta sulle coste dell'Europa

La Sirenetta, Disney
La Sirenetta, Disney

Quando negli Stati Uniti, a metà degli anni Dieci del nuovo secolo, partì l'onda lunga della cultura woke un invito a «state all'erta» di fronte alle ingiustizie sociali e razziali era facile immaginare che da lì a poco si sarebbe abbattuta sulle coste dell'Europa, storicamente abituata ad accogliere con entusiasmo qualsiasi moda o furore ideologico proveniente da oltre Atlantico. Gli intellettuali del Vecchio (...)

(...) Continente sono sempre stati sensibili alle sollecitazioni dei campus americani e dei salotti dell'Upper East Side di Manhattan. E infatti - mentre l'onda veniva cavalcata da movimenti attivisti come #MeToo e Black Lives Matter e sfociava nella cultura della cancellazione - così è stato. Da qualche anno anche l'Inghilterra, la Francia o l'Italia devono fare i conti, forti di uno scetticismo figlio della propria storia millenaria purtroppo sconosciuto ai troppo giovani Stati Uniti, con una nuova guerra culturale che portando agli estremi le rivendicazioni del politicamente corretto finisce per urlare contro la «supremazia bianca», vede ovunque una mascolinità tossica e impone un rispetto che sconfina nella sottomissione verso tutte le minoranze etniche, religiose e sessuali. L'effetto è stato irrigidire il confronto-scontro fra una sinistra molto retorica e troppo liberal che tende a cancellare tutto ciò che offende la buona coscienza antirazzista, inclusiva e iper femminista, e una destra inutilmente bigotta e reazionaria che, nel nome della libertà di parola e della scorrettezza, rischia di perdersi nella giustificazione delle peggiori provocazioni. E così è da tempo che anche da noi si discute di statue abbattute, limitazioni del linguaggio, classici della letteratura censurati, parole modificate, film censurati, statue sfregiate.

Ora, però, alcuni fatti sembrano suggerire che l'onda lunga del pensiero woke per alcuni una feroce forma di intolleranza, per altri una necessaria battaglia per sensibilizzare l'opinione pubblica sulle ingiustizie sociali - si stia smorzando. E se ciò già accade in America, con maggiore velocità accadrà in Europa, tanto eccitata nell'accogliere nuovi conformismi quanto spregiudicata nel gettarli nella pattumiera della Storia appena il vento della rivoluzione cessa di soffiare. Del resto, quando si arriva a tacciare di «cultura dello stupro» una fiaba o un cartoon, si è a un punto di non ritorno. Dopo, o scoppia una guerra civile o su tutto ciò cala una cappa di indifferenza.

Alcuni segnali di una risacca dell'onda woke ci sono. L'estate scorsa la birra Bud Light, fra le più popolari d'America, ha visto crollare i suoi ricavi dopo aver scelto come testimonial una attivista transgender, Dylan Mulvaney: una mossa che strizzava l'occhio a nuove fasce di consumatori più fluidi e che invece innescò una feroce campagna di boicottaggio sui social causando all'azienda una perdita di 400 milioni di dollari. Sorte simile per il colosso di cosmetici Maybelline: scelse la medesima influencer e ottenne la stessa reazione da parte del pubblico, inverando il detto «Get woke, go broke», più o meno «Fai troppo il politicamente corretto, vai in rovina». È il destino del «capitalismo woke», più falso che cinico, che si ripulisce la coscienza abbracciando le cause etiche ultra-progressiste

Da lì è stato un susseguirsi di flop per film, serie tv e fumetti troppo piegati alle dottrine Lgbtq e ultra-green. La regola recita: a ogni esagerazione segue una reazione. L'impero Walt Disney è la cartina di tornasole: dopo i mugugni del pubblico per la Sirenetta nera e per l'annuncio nel 2024 di una Biancaneve ispanica (e sette nani di etnie diverse), ecco il tonfo dell'attesissimo Wish, uscito sotto Natale, il cui scontato «correttismo» politico storia di una Principessa nera ed emancipata, liquidata dalla critica come «spazzatura woke riciclata» ha tenuto lontani molti spettatori. «Il fatto spiega al Giornale il direttore della mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera è che la cultura woke, partita da posizioni condivisibili, cioè porre rimedio a situazioni di disparità sociale, è uscita dal seminato. È giusto rivendicare la tutela dei diritti delle minoranze, ma se poi si dà vita a forme di dogmatismo normativo è controproducente: il nuovo regolamento dell'Academy rischia di escludere dagli Oscar i film che non coinvolgono una certa quota di rappresentanti delle minoranze. Uno sbaglio: è una limitazione della libertà creativa che crea forme di discriminazione al contrario». E rieccoci al punto della questione: l'estremizzazione di certe posizioni progressiste e la rilettura buonista dei classici che finiscono col produrre effetti contrari rispetto alle istanze legittime da cui si è partiti. Provocando reazioni di rigetto. «Senza contare continua Barbera che le Majors sono abbastanza ciniche da cavalcare l'onda quando paga e abbandonarla appena tradisce le attese: a Hollywood l'unica religione è il business. Non ci mettono niente ad accantonare l'afflato etico se capiscono che il botteghino li punisce». Prima il denaro, poi le battaglie civili... Per la cronaca, secondo l'economista Jonathan Turley, la Disney avrebbe perso un miliardo di dollari a causa dei quattro ultimi film d'ispirazione woke. I primi segnali della fine?

«Credo che il momento peggiore della cancel culture sia ormai passato, ma che le conseguenze, a sinistra come a destra, ce le terremo a lungo», è l'opinione di Costanza Rizzacasa d'Orsogna, giornalista e saggista, una delle prime in Italia a occuparsi «scientificamente» del tema col suo Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana (Laterza, 2022). «Dopo le proteste antisemite nei campus americani e le audizioni al Congresso delle presidenti di Harvard, MIT e Penn che le hanno giustificate, si è registrata una brusca inversione di marcia, e sono stati messi sotto accusa i cosiddetti DEI, i programmi di Diversity, Equity and Inclusion che da anni dominano le università e buona parte della società americana. Tra i primi ad agire, il governatore dell'Oklahoma, che ha tagliato i fondi DEI delle università pubbliche. E un altro caso recente è quello della United Airlines, il cui Ceo, Scott Kirby, aveva sottolineato l'importanza dei DEI nella selezione dei piloti: secondo un report della stessa compagnia nel 2022 l'80% dei nuovi piloti proveniva dalle minoranze, percentuale statisticamente impossibile. La compagnia è stata accusata di preferire la diversità alla sicurezza dei passeggeri e il titolo è crollato in borsa». Ennesima dimostrazione del rischio che alcuni eccessi dogmatici provochino una correzione di uguale violenza. L'esempio? «Con le dimissioni della preside di Harvard, Claudine Gay, gesto comprensibile visto che non ha condannato con nettezza gli episodi di antisemitismo avvenuti nelle università americane dopo i fatti di Gaza, si è eliminata la singola persona, non il problema. Diversità e inclusione sono valori fondamentali. Quello che è pericoloso è portarle avanti con ideologia e processi sommari come è stato fatto negli ultimi anni».

Per un momento abbiamo convissuto con la paura che la cultura woke fosse una nuova forma di maccartismo, una censura che aleggia sui comportamenti pubblici, sul linguaggio dei media, sulla satira dei comici... Ma - forse il peggio è passato. Sono sempre di più gli intellettuali che attaccano l'idolo woke. Da Fran Lebowitz («È un movimento creato da giovani, e per sua natura ha derive sciocche o estreme») al filosofo francese Rémi Brague («Il movimento woke può solo distruggere, non ha nulla di positivo da offrire»).

Davide Piacenza, autore del saggio La correzione del mondo (Einaudi, 2023), azzarda: «Certo: i discorsi sull'identità e la rappresentazione delle minoranze, in società atomizzate, ostaggio dei social media e in burrascosa evoluzione, saranno con noi ancora per molto. Sono però anche convinto che le forme più elitarie, liturgiche e strumentali della cultura woke stiano iniziando a far storcere il naso anche fra quei progressisti che fino a ieri avevano dato quantomeno il beneficio del dubbio a influencer e portavoce improvvisati in nome delle buone cause, ma ora si stanno accorgendo che troppo spesso dietro il proclama corretto rimane soltanto una ricerca di pubblicità». E in questo senso è interessante osservare il moto di rigetto di molta sinistra statunitense verso ex mostri sacri come gli attivisti Shaun King e Ibram X. Kendi, accusati di aver speculato sulle lotte per i diritti civili. «E per quanto riguarda l'Italia invece - continua Piacenza - ritengo che si trovi ancora indietro: per noi il politicamente corretto e la cancel culture di fatto non sono che echi lontani, che trasferiti nel nostro contesto nazionale scolorano e risultano spesso fuorvianti.

Ma qualcosa si sta muovendo, il pubblico sembra più critico... Rimane che, per dirla con una battuta, ne dobbiamo ancora mangiare di pandori prima di renderci conto che essere buoni non è postare una storia su Instagram».

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