Una settimana non basta a decidere se un fallo è rigore, figuriamoci se Giorgia Meloni sarà una brava premier. Però è sufficiente per cominciare a smontare alcuni pregiudizi. In quest'ottica, la sua prima settimana di non-governo è esemplare, perché mai prima d'ora un leader di partito aveva stupito così tanto l'opinione pubblica senza fare (quasi) nulla.
Dopo il trionfo alle urne, Meloni sapeva di non poter sbagliare una mossa. Se già lo sport nazionale è cercare appigli per affossare il prossimo, con lei la ricerca sarebbe stata ossessiva. La campagna elettorale di demonizzazione è stata un utile stress-test. Se non ti perdonano un video fatto a 19 anni, figuriamoci una gaffe da primo ministro in pectore.
Con questa consapevolezza, la leader di Fdi sta cercando di rendere l'embrione del suo esecutivo inattaccabile da ogni punto di vista, dall'immagine alla forma istituzionale, dalla comunicazione alle relazioni internazionali. Ha evitato festeggiamenti, uscite rancorose o reazioni agli attacchi più infimi; sta coordinando perfettamente la transizione di poteri, con contatti discreti con Draghi e il Colle; ha azzerato le voci «fatte filtrare» ai media, le polemiche con gli alleati, il bailamme sulle nomine; ha rilasciato poche dichiarazioni ma precise, come quella durissima contro Putin nel giorno dell'annessione dei territori sottratti all'Ucraina. Cautela e misura.
È il minimo, si dirà. Non ha ancora fatto nulla, neppure si è insediata. Vero, le partite non si vincono nel riscaldamento. La congiuntura guerra-recessione fa paura e nessuno sa se il centrodestra sarà in grado di affrontarla. Però, e questa è la novità principale per gli osservatori, l'immagine della prima settimana è di responsabilità, autorevolezza, basso profilo e coscienza delle priorità: la scelta di debuttare in pubblico parlando di economia da Coldiretti piuttosto che di sbarchi a Lampedusa la dice lunga. Certo, è una novità per chi credeva agli allarmismi della sinistra sulla «donna più pericolosa d'Europa» e si aspettava follie degne di Trump. Ma è anche un sollievo per chi, nel centrodestra, teme le possibili derive orbaniane dietro l'angolo.
Non è un caso dunque se notisti non certo di area come Paolo Mieli cominciano a pensare che il governo Meloni durerà e anche all'estero sembra cambiare l'aria. Il Financial Times ha invitato la sinistra in cerca di fascisti a guardare a Mosca e non a Roma, mentre il Telegraph l'ha incoronata: «Nelle sue parole si ritrovano i valori del conservatorismo tradizionale che si oppone all'immigrazione di massa, al gender che nega la biologia e alla globalizzazione che cancella le identità: non è estrema destra, sono pensieri condivisi da milioni di noi».
Archiviate per ora le polemiche sul passato, dopo una settimana si intravvede cosa potrebbe essere in futuro il governo Meloni: un governo del buonsenso. Che «faccia gli interessi dell'Italia», ma per trovare una sintesi europea, non per rivendicare un isolazionismo cieco e anacronistico. Che si batta per il merito, che non smantelli il welfare ma contrasti la logica dei sussidi. E che difenda le libertà e i diritti di tutti, senza dimenticare doveri e regole. Perché o sara così, senza spazio per orbanismi e No Vax, o non sarà.
È tutto molto banale, ma il buonsenso è
fuori moda da troppe stagioni. Forse è arrivato il tempo di invertire la tendenza e ridargli dignità. Da estrema destra a estrema ragionevolezza e realismo: è questa l'unica via per evitare l'estrema unzione al nuovo governo.
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