nostro inviato a Brindisi
Si sforza di stare seduto sulla sedia in prima fila, ma la testa non ne vuole sapere di stare diritta. Fluttua da destra sinistra, poi si affloscia fra le mani che la stringono sopra le ginocchia. Papà Massimo soffre per un’ora, di un dolore che fatica a farsi strada. Bisbiglia fra sé e sé parole incomprensibili, sussurra qualcosa rivolgendosi,chissà,alla figlia che non c’è più, scuote ritmicamente il capo come una marionetta. La comunità di Mesagne è tutta nella cattedrale: intorno a lui ci sono i boy scout, ordinati e teneri con la camicia azzurra e i berretti verdi bordati di giallo, con tanto di visiera. La cupola è luminosa, e i colori pastello delle pareti accentuano quell’impressione di leggerezza. L’anziana madre batte delicatamente la mano sulla spalla di Massimo, quasi a incoraggiarlo timidamente. Ma lui proprio non ce la fa: stringe un fazzolettino di carta, si pulisce il naso e gli occhi da cui però non sgorgano lacrime. Quello di Massimo Bassi, il padre di Melissa, è un dolore muto, potente, inarrestabile.
La madre di Melissa non c’è: è all’ospedale, imbottita di sedativi. Era una piccola famiglia: Massimo, piastrellista, Rita, casalinga, Melissa che frequentava la terza dell’istituto tecnico Francesca Morvillo. L’avevano aspettata a lungo,Melissa.L’avevano desiderata per tanto tempo e avevano avuto paura di veder sfiorire le loro speranze. Poi, finalmente, la famigliola di Mesagne si era allargata. E adesso, mentre il coro ce la mette tutta, lui deve ripensare a come era iniziata e a com’è finita, davanti a un cassonetto, come se Melissa fosse un pezzo di carta da buttare nel cestino. E invece no, anche il fidanzatino, Mario, il volto da adolescente con i brufoli, la ricorda come si ricorda un sorriso e le amiche, Francesca e Emanuela, raccontano che era una ragazza viva, spumeggiante. Leggeva, leggeva i libri di Moccia, era rimasta toccata in profondità dalla tragedia di Sarah Scazzi, ambientata ad Avetrana, non molto lontano da qui, ma certo non immaginava di finire pure lei nelle pagine della nera. È strano davvero il destino. Due ragazze camminano insieme alle 7.40 del mattino. Sono scese dallo stesso pullman, quello proveniente da Mesagne. Svoltano da viale Togliatti, prendono a destra per via Galanti, fanno pochi passi e vengono travolte dall’esplosione. Melissa muore, in pratica, sul colpo, Veronica è in condizioni disperate. Qualcuno, troppo frettoloso, annuncia che pure lei non ce l’ha fatta. E invece, dopo un drammatico intervento chirurgico al torace devastato, con i chirurghi di Lecce in trasferta a Brindisi, e dopo ore di apprensione e dopo una notte che non vuole finire, Veronica sembra ritrovare la strada che la riporterà nel mondo.
La Tac al mattino è un passaporto insperato verso la vita e in poche ore la ragazza ritrova il suo respiro, sia pure accompagnato da una ventilazione non invasiva, e la parola. Ora c’è un padre che tremante, quasi incredulo, indossa i calzari, mette il camice bianco e la mascherina, s’infila nell’open space della rianimazione, laggiù al piano rialzato dell’ospedale Fazzi di Lecce. Ci sono le piastrelle smangiate e certa trasandatezza del Sud, le reti dei letti appoggiate sui balconi come relitti di sofferenze antiche. Papà Maurizio, Maurizio Capodieci, li vede mentre accelera verso il box occupato da Veronica e forse tutto questo gli sembra bello, perfino commovente, perché in fondo a quelle garze e a quelle bende e a quelle precauzioni c’è sua figlia. C’è Veronica che torna dal buio e gli sorride: «Papà ti voglio bene, dammi un bacio». E Maurizio sente qualcosa dentro, sono le viscere che si muovono e che restituiscono il senno a chi stava per impazzire. Sono pochi i chilometri che separano la cattedrale di Mesagne dal Fazzi di Lecce, la messa domenicale con il povero padre affondato nella sua solitudine crocifissa e i corridoi dell’ospedale che corrono alla rianimazione. Sì, alla rianimazione che ora sembra la parola magica di una favola a lieto fine.
Torna nella stanza dell’accoglienza, che la direzione del Fazzi gli ha messo a disposizione e allora papà Maurizio, mani robuste di manovale, può stringere e abbracciare i parenti che sono accorsi. E sciogliersi in una gioia quasi selvaggia, recintata solo dalla prudenza per una prognosi ancora riservata. A Mesagne la messa prosegue e la mano della nonna accarezza sempre quella del papà che indossa i jeans e la camicia scura del lutto. Don Luigi Ciotti, il prete antimafia,tuona contro«l’ipocrisia, l’illegalità, la zona grigia, la connivenza, la rassegnazione». E spiega che il Vangelo ha introdotto un altro linguaggio in questo mondo martoriato. «Non mi darò pace », grida don Ciotti e quelle parole arrivano come una freccia al bersaglio.
Papà Massimo spalanca finalmente gli occhi, fissa il prete che predica a non più di tre metri da lui. È un attimo e il velo scende ancora, insondabile.
«Non abbiate paura di protestare con Dio - ripete don Ciotti - anche la protesta è preghiera». Poi scende dal pulpito, s’inginocchia e travolge con un abbraccio quel povero padre. Massimo singhiozza, si scuote tutto e, finalmente, piange.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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