La vulgata più in voga sui presidenti delle due Camere parla della sconfitta di Silvio Berlusconi. Sarà, magari nella forma. Nella sostanza no. Nella partita, infatti, in ossequio all'arte del compromesso, tutti hanno perso qualcosa, ma il Cav, almeno per ora, è anche l'unico che ha avuto qualcosa. All'inizio, infatti, non era scritto da nessuna parte che il Senato sarebbe dovuto andare a Forza Italia. Anzi. La filosofia dei vincitori teorizzava uno scambio alla pari tra Lega e 5 Stelle.
Alla fine del gioco dei veti e dei controveti, secondo i riti della Prima Repubblica che il proporzionale ha fatto tornare di moda, è uscito fuori il nome di Elisabetta Casellati. Il pretesto usato dai grillini per far fuori il principale candidato di Berlusconi, Paolo Romani, è stato quello di una condanna irrisoria per peculato. Ma la vera ragione l'ha spiegata lo stesso Salvini al Cav: «Romani è stato l'uomo di collegamento in Senato con il Pd di Renzi. Non esistono uomini per tutte le stagioni». Solo che il paradosso ha voluto che tra le tre candidature di Forza Italia tirate in ballo per la presidenza del Senato (oltre alla Casellati, appunto, Romani e Anna Maria Bernini), sia stata eletta, anche con i voti dei 5 Stelle, quella più antitetica, per cultura e biografia, al mondo di Grillo e dei suoi seguaci: i mal di pancia e le contorsioni del giorno dopo del Fatto, organo di riferimento del grillismo nostrano, stanno lì a dimostrarlo.
Non basta. Sempre il gioco del rimpiattino ha portato alla presidenza della Camera Roberto Fico, di fatto l'anti-Di Maio. La stessa vulgata giornalistica, sempre in ossequio ai cosiddetti vincitori, narra che sia stato un modo per congelare l'ala ortodossa del movimento. Possibile. Ma la storia recente della Repubblica racconta che i personaggi che sono stati messi nel frigorifero degli incarichi istituzionali per non disturbare i manovratori non si sono, poi, comportati da bastoncini Findus: Fausto Bertinotti ha fatto vedere i sorci verdi a Romano Prodi; Pierferdinando Casini ha angustiato le notti del Cav; Gianfranco Fini, addirittura, ha tentato di fargli le scarpe. E Fico, che è stato sempre un arci-nemico del connubio 5 Stelle-Lega, non se ne starà con le mani in mano. Tanto più ora che il maître à penser del grillismo, Marco Travaglio, ha predetto al Di Maio in salsa verde il linciaggio.
E veniamo a Salvini e, appunto, a Di Maio: cosa faranno da grandi? Sicuramente, in un ipotetico governo centrodestra-5 Stelle, il primo non vorrà essere il «vice» del secondo, e viceversa. Tant'è che il leader della Lega ha già cominciato a suggerire al suo interlocutore: «Facciamo un passo indietro entrambi». Consiglio saggio. Solo che se per le elezioni dei presidenti della Camere un vertice tra i leader di partito era un'iniziativa irrituale, quello tra i capi di un'ipotetica maggioranza di governo è di prammatica: per cui l'ipotesi di un incontro con Berlusconi che Di Maio aveva cacciato dalla porta, gli rientrerà dalla finestra. Anzi, più che un'ipotesi, se il leader dei 5 Stelle vorrà fare un governo con l'intero centrodestra, diventerà un obbligo.
E già, con Di Maio e il Cav nella stessa maggioranza di governo, Travaglio avrebbe sicuramente un coccolone, mentre forse con la sola Lega un travaso di bile.
Ma un governo giallo grillino e verde leghista, oltre ad avere i colori del Carnevale carioca, cosa potrebbe fare? La vulgata giornalistica è convinta che potrebbe tagliare i vitalizi, fare una nuova legge elettorale e riportare il Paese al voto. Cioè, dopo tanto casino, invece di tentare la flat tax o il reddito di cittadinanza, vale a dire quello che i loro elettori si aspettano, Di Maio e Salvini riproporrebbero, nei fatti, gli stessi argomenti che hanno portato Matteo Renzi al declino. Con il rischio di ripetere l'errore di calcolo di Renzi: lui si è inventato il Rosatellum per far vincere leghisti e grillini; e loro escogiteranno un altro sistema per far risorgere il Pd.
Gli elettori di questi tempi sono molto volubili. Per cui alla fine c'è anche il rischio che i due vincitori restino a mani vuote.
Tanto più che le leadership - sempre Renzi docet - nascono e
muoiono.E già, la storia, a quanto pare, non insegna niente a nessuno. Pardon, solo il Cav, in nome del suo proverbiale pragmatismo, ne ha fatto tesoro: meglio l'uovo oggi (il Senato), che la gallina (il governo) domani.
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