L'unico visitatore di un Transatlantico di Montecitorio deserto, all'indomani della presentazione delle liste elettorali, è il personaggio che ha dato il nome alla legge che ha fatto impazzire mezzo mondo politico, il famigerato Rosatellum. Da perfetto triestino Ettore Rosato non ha perso la qualità, o il vizio, di essere diretto. «Bisogna vedere - spiega il presidente dei deputati del Pd - quanti seggi nel centrodestra andranno a Forza Italia: il rebus del 5 marzo è se Berlusconi avrà seggi sufficienti per fare una maggioranza di centrodestra o qualcos'altro. Il futuro, invece, si legge nelle liste elettorali: Renzi punta a fare Macron, mentre Salvini vuole diventare il leader della destra italiana».
Già, il presente e il futuro. Il presente si legge nei sondaggi trasformati in numeri di deputati e senatori, che disegnano le variabili di una possibile maggioranza parlamentare. Secondo la sacerdotessa delle percentuali Alessandra Ghisleri per ora il centrodestra può contare dai 270 ai 280 seggi alla Camera, mentre la Grosse Koalition, formato Forza Italia-Pd, dai 290 ai 300 seggi. Tutto si giocherà nell'ultimo mese di campagna elettorale. Il futuro, invece, lo si intravede mettendo in controluce le liste dei candidati, al netto del folklore e delle polemiche tra promossi ed esclusi. E ci vuole poco a comprendere quali siano le scommesse dei vari leader, su quale sarà l'approdo di quel processo di scomposizione e ricomposizione delle forze in campo che darà vita alla terza Repubblica, quella del ritorno al proporzionale.
Fa sorridere, ad esempio, la sorpresa dei maggiorenti del Pd sui candidati messi in campo da Matteo Renzi. L'obiettivo del personaggio - ambizioso, velleitario o sbagliato, si vedrà - era quella di trasformare il partito, di sottoporlo a una mutazione genetica. E lo ha fatto. «Ho archiviato Antonio Di Pietro - è la fotografia del segretario del Pd - e, insieme a lui, una decina di comunisti, come direbbe Silvio Berlusconi». Inevitabile: il modello a cui si ispira Renzi è Macron, e quegli ingredienti - il giustizialismo (Di Pietro) e un certo tipo di sinistra (i post-comunisti), indispensabili nel ventennio della seconda Repubblica - non servono più. Anzi, sono nocivi. Per cui fuori Di Pietro, fuori gli ex comunisti, e dentro Cosimo Ferri, già capo della corrente di destra dei magistrati, come candidato ad Arezzo. Inoltre se il modello è Macron (al di là delle fasi zen o delle fasi «lanciafiamme»), non ci possono essere troppi galli nel pollaio. E nelle liste c'è anche questo segnale agli esponenti di primo piano del Pd. «La mia esclusione e quella di Nicola Latorre - si lamenta Andrea Manciulli, che pure è stato presidente della commissione parlamentare presso la Nato - è stato un messaggio in codice a Marco Minniti e a Paolo Gentiloni: un modo per ricordargli che il Pd è Renzi. Poi, avrà pure voluto eliminare i postcomunisti. Ma non è stata quella la questione principale, visto che io e Latorre siamo più a destra di lui».
Discorsi fuori tempo massimo, visto che la sua filosofia il segretario l'aveva già preannunciata otto mesi fa. «Io sono un convinto assertore di un motto di J. F. Kennedy - aveva detto -: i nemici si perdonano, ma non dimenticare mai i loro nomi. Io vado oltre Kennedy: i loro nomi li ho tatuati in una parte molto sensibile del mio corpo». Ora l'unico rischio per Renzi è il risultato elettorale. «Il Pd deve arrivare al 25% - è il suo leitmotiv - per essere essenziale per qualsiasi governo».
Speculare a Renzi è Matteo Salvini. Dalle liste traspare che il leader leghista punta a diventare il leader della destra italiana: il Carroccio delle origini è stato falcidiato (esclusa tutta la minoranza bossiana, a parte il Senatùr) e dentro pezzi della destra tradizionale di Alleanza nazionale. Se ne sono accorti dentro e fuori il partito. E nella Lega anche con un certo imbarazzo. «Non so - è il dubbio del presidente dei senatori leghisti, Gian Marco Centinaio - cosa gli porterà questo reclutamento di ex An». «Francamente non lo capisco - ragiona a voce alta, Stefano Candiani, senatore uscente e candidato a Varese -, non penso che questa operazione possa riuscire al Nord». In realtà, Salvini segue lo schema dell'altro Matteo: intervenire sul Dna della Lega per allargarne il peso nella geografia politica e consolidarsi. Correndo i rischi connessi. «Il progetto di Salvini è questo - ammette scettico, l'azzurro Elio Vito - visto che ha tirato dentro anche Storace ed Alemanno, ma la natura della Lega è un'altra».
Il convitato di pietra delle operazioni dei due Matteo, inutile dirlo, è Berlusconi. Con Renzi che punta al centro e Salvini che tenta di tirare a sé pezzi di destra, tradizionali alleati del Cav, è evidente che leader di Forza Italia deve presidiare i confini. Berlusconi lo ha fatto collocandosi al «centro del centro», al crocevia di ogni ipotesi di governo che non coinvolga i grillini. E per farlo il personaggio ha assunto un ruolo inedito per lui, quello di garante delle istituzioni contro le spinte populiste: in Europa e da noi. È l'immagine che gli ha aperto una linea di credito con gli avversari di un tempo, dentro e fuori i confini nazionali: dalla Merkel a Scalfari, a Le Monde, all'Economist. È l'«operazione battistrada» per arrivare a ruoli istituzionali, in un futuro più o meno prossimo. Per una scommessa del genere, però, il Cav ha bisogno di un gruppo coeso e coerente con l'imprinting delle culture moderate, fondative di Forza Italia. Risultato: degli ex An sono rimasti in pochi. «Contro di noi - lamenta Amedeo Laboccetta - c'è stata una vera pulizia etnica». «Di noi - tira le somme un altro escluso, Francesco Aracri - sono rimasti solo Gasparri e un siciliano». È probabile, quindi, che questo ritorno alle origini e le polemiche che si porteranno dietro certe esclusioni, costeranno qualcosa in termini di consenso. Il coordinatore dimissionario di Forza Italia nelle Marche, Remigio Ceroni, minaccia boicottaggi. Aracri lancia segnali a Fratelli d'Italia e Lega. E a questo si aggiungono i guai nella guerra fratricida dentro i centristi della «quarta gamba: due giorni fa il fittiano, Lucio Tarquinio, in uno dei saloni del Senato, prometteva un patto di mutua assistenza a uno dei più fieri avversari di Renzi, Ugo Sposetti: «Vedrai che a Gallipoli daremo una bella mano a Massimo D'Alema».
Sarebbe sbagliato, però, pensare che in questi giochi trasversali, Berlusconi sia disarmato. «Se Salvini farà qualche scherzo - teorizzava Stefano Caldoro, uno dei capi di Forza Italia in Campania - vedrete che Maroni sarà l'uomo che romperà la Lega per portarne una parte nelle larghe intese con Forza Italia e il Pd».
Discorsi, o minacce, ma tutte al futuro. Vedremo. E gli altri? Gli scissionisti del Pd e i grillini? Anche dalle loro liste elettorali traspare un progetto, più o meno sbagliato. Liberi e uguali si sono affidati a una miscela che è un surrogato della sinistra italiana della seconda Repubblica: un ex magistrato Grasso e i post comunisti. Insomma, una formula che fa inorridire anche l'ex leader di Rifondazione Fausto Bertinotti. «Lo stato della sinistra italiana - osserva sconfortato - è deprimente. Hanno pensato a Grasso, invece, di guardare a un leader come Jeremy Corbyn, cioè a un Cofferati o a un Landini. La verità è che l'unico che ha la testa, là dentro, è D'Alema, solo che vorrebbe stare al posto di Renzi e fare quello che fa Renzi».
Invece, con i grillini dell'epoca Di Maio, siamo passati dal qualunquismo dell'uomo qualunque alla qualunque e basta: sia nelle proposte, sia nei candidati.
Un pressappochismo che ha fatto dimenticare - per dirne una - ai rappresentanti 5Stelle nella commissione d'inchiesta sulle banche di fare almeno un cenno al rapporto ambiguo tra Mps e De Benedetti su Sorgenia. I grillini sono diventati amici dell'Ingegnere? No, per carità, sono solo confusi. E Beppe Grillo appare sempre più distante.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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