I più grandicelli fra noi, e chi ama la storia, ricordano bene la «primavera di Praga», divenuta di colpo un inverno cupo all'apparire dei carri armati sovietici. Era il 21 agosto del 1968, e le immagini erano in bianco e nero. L'Unione Sovietica di Leonid Breznev temeva il processo di democratizzazione che Alexander Dubcek aveva avviato in Cecoslovacchia, fra l'entusiasmo del suo popolo: la libertà di stampa, la rinascita di partiti non comunisti, insomma il minimo del vivere civile.
Sembrava che anche in occidente tutto stesse per cambiare in quell'anno, i movimenti studenteschi portavano la rivoluzione giovanile dalla California a Parigi e alle capitali dell'Europa occidentale, con manifestazioni gioiose e beffarde. Ma i carri armati sovietici non erano né gioiosi né beffardi, in piena guerra fredda l'Urss aveva voluto dare una prova della sua forza. Invece fu l'inizio della sua fine.
Faceva impressione vedere i colossi d'acciaio armati di cannone nelle antiche strade e piazze di Praga, così estranei a una cultura antica e all'ombra tormentata e pacifica di Kafka, che aveva camminato proprio lì. Dopo qualche mese fu ancora più sconvolgente vedere le fiamme avvolgere il corpo di un giovane uomo che sacrificò la vita per ricordare al mondo il dramma del suo Paese. Si chiamava Jan Palach, aveva vent'anni, era uno studente di filosofia. Il 16 gennaio 1969, prima di sera, andò nella storica piazza San Venceslao, nel centro della città, si fermò ai piedi della scalinata del Museo nazionale, si cosparse di benzina e fece scintillare un accendino. Morì dopo tre giorni di agonia. Il mondo aveva già assistito, pochi anni prima, all'identico suicidio di numerosi bonzi in Vietnam, e non immaginava che qualcosa di simile potesse avvenire in Europa: Praga, geograficamente è più a ovest di Vienna.
Son come falchi quei carri appostati, recita la canzone che Francesco Guccini dedicò a Palach, e pensavamo di non vedere più nemmeno quelli, in Europa. La Bielorussia è Europa, anche se non fa parte dell'Ue confina con la Polonia, la Lituania, la Lettonia. Ma la Russia, non più comunista, si sente ancora in diritto di intervenire nei Paesi che considera satelliti, l'abbiamo visto e lo vediamo con l'Ucraina.
Così la telefonata di Putin a Lukashenko per garantirgli il «sostegno necessario» fa riapparire l'incubo dei carri armati di Mosca, sotto chi sa quale forma.
Uno storico non se ne stupisce, è dal Cinquecento, dai tempi dello zar Ivan il Terribile, che i capi russi - zaristi, comunisti, postcomunisti - considerano quel territorio come cosa loro. Ma l'idea di quei carri di nuovo in Europa, fa paura lo stesso.
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