Sull'autostrada che lo porta alla due giorni della Lega a Catania, alla prima udienza del primo processo sulle gesta di Matteo Salvini ministro dell'Interno che tenta di bloccare l'arrivo nei porti italiani dei migranti, Stefano Candiani, che era con lui sottosegretario al Viminale, cerca di dare un senso a una vicenda giudiziaria che sul piano legale non ha né capo né coda, a meno che non si vogliano utilizzare altre categorie interpretative. «Il problema spiega senza tanti fronzoli è che questi vogliono impedirci di fare politica. E noi, invece, andiamo a Catania proprio per fare la politica che interessa alla gente». Fin qui la chiave comunicativa dell'happening siciliano, il depliant. Poi, però, Candiani, che è uomo di esperienza, va al sodo: «Ci sono dei pezzi di magistratura che sono diventati i pretoriani di questo equilibrio politico. Quelli là non vengono toccati, mentre a noi capita di tutto. È il sistema rivelato dalle intercettazioni di Palamara. Ad esempio, se uno dà 50 euro alla Lega passa i suoi guai, finisce sotto la lente di ingrandimento dei magistrati: per cui rinuncia, chi glielo fa fare?! Una cosa simile è successa anche a Renzi: quando rompeva le scatole gli hanno perquisito o intercettato tutti i finanziatori; ora che si è acquietato la Cassazione addirittura ha giudicato i provvedimenti di quel Pm irregolari. Purtroppo di questo condizionamento, che penalizza a turno gli uni e gli altri, dovrebbe prendere coscienza l'intera classe politica».
Sono i discorsi che si fanno sempre quando le strade della giustizia e della politica si intersecano, cosa che in Italia avviene spesso. Ma anche se ci sei abituato, non puoi fare a meno di notare certe incongruenze. Chiedi a Candiani: in un Paese in cui un avviso di garanzia non si rifiuta a nessuno non lascia perplessi che Zingaretti abbia attraversato indenne il caso della commessa delle mascherine «fantasma» comprate dalla Regione Lazio (la sòla, si direbbe a Roma, è costata alle casse pubbliche 11 milioni di euro) o che nessuno abbia indagato sulle peripezie del Commissario Arcuri su mascherine, banchi di scuola e gel disinfettante? La risposta è netta: «Sicuro!». E i dubbi vengono anche ad un forzista mite, già membro del Csm, come Pierantonio Zanettin: «Se queste vicende avessero avuto al centro esponenti politici o manager vicini al centrodestra, gli interessati si sarebbero beccati almeno un avviso di garanzia. Basta pensare a Salvini che è sotto processo a Catania per una puttanata. Addirittura in questo caso il pubblico ministero, che era un giudice normale, ha chiesto l'archiviazione; mentre un altro magistrato che non lo era, lo ha rinviato a giudizio».
Due pesi e due misure. Magari gli avvisi di garanzia per questo o quel personaggio della nomenklatura giallorossa ci saranno anche stati, custoditi però in un limbo - come sarebbe giusto visto che sono, appunto, provvedimenti di garanzia - proprio per evitare conseguenze politiche. Solo che questa sensibilità si usa solo per personaggi di un certo colore, o personaggi che hanno un peso nel puntellare l'attuale governo: «Anche delle peripezie della famiglia Grillo osserva l'azzurro Osvaldo Napoli non se ne è saputo più nulla. Si sa, invece, che da quando è scoppiato il caso del figlio, il Beppe nazionale è diventato il protettore di questo governo. Ci sono vicende giudiziarie che riguardano grillini e Pd che vengono affossate. Eppoi processano Salvini perché ha tenuto un gruppo di migranti 4 giorni su una nave, quando ora li tengono in quarantena. Una follia! Lo dice uno che a Catania non va».
Basta analizzare attentamente le pagine dell'organo ufficiale del giustizialismo italiano, Il Fatto, per avere la cartina di tornasole di questa strategia: la linea editoriale è quella di proteggere ad ogni costo Giuseppe Conte e il suo governo e mettere sul banco degli imputati gli avversari. Magari, dopo che ha sparato sull'alleanza Pd-5stelle, anche la collaborazione di Di Battista con il giornale potrebbe essere andata a farsi benedire. Il network giustizialista è spietato: o di qua, o di là; e chi è nel mezzo, è nel mirino affinché non sgarri. Giacomo Portas, alleato di Italia Viva, ha spiegato in tutte le lingue a Matteo Renzi che avrebbe mille motivi per aprire la crisi di governo. Non ha tirato fuori un ragno dal buco. Alla fine è arrivato a una conclusione: «Ha paura». Già, pure l'altro Matteo ha avuto i suoi guai. Come Salvini, Berlusconi, e qualche Pd, anche se i casi sono stati rari: la protezione delle ex toghe rosse, ora alleate di quel pezzo di magistratura che professa il pensiero di Piercamillo Davigo, è ancora efficace.
Il problema dei politici italiani, però, è che diventano garantisti solo quando vengono sottoposti a «trattamento». Verso i loro avversari non lo sono mai. Al massimo restano in silenzio. E l'assenza di solidarietà pesa, eccome, nell'equilibrio dei poteri. È un argomento che ha pesato anche nella discussione l'altro giorno tra i deputati di Forza Italia invitati da Salvini a Catania. C'è stato chi come Laura Ravetto era per andarci a tutti i costi: «Non capisco chi si è preso il diritto di decidere chi sì e chi no». E chi, come Renato Brunetta, si è rifiutato: «Se la coalizione di centrodestra avesse deciso una strategia comune sul garantismo sarei andato di corsa, ma così eppoi nella scorsa legislatura i leghisti si astennero sulle autorizzazioni a Berlusconi: io non dimentico!».
E siamo arrivati al punto: per evitare che la magistratura faccia il bello e il cattivo tempo, il garantismo dovrebbe diventare patrimonio comune dell'intera classe politica o, almeno, della sua maggioranza. Tanto più ora che, dopo il Sì di Matteo Renzi, l'ipotesi di una riforma della legge elettorale basata su proporzionale e preferenze sta diventando molto probabile. «Se non l'accompagnano rimarca Gianfranco Rotondi - con una riforma in senso garantista di leggi come il traffico di influenze, il voto di scambio o il finanziamento ai partiti, i magistrati si serviranno sul piatto i politici à la carte». Come dargli torto: la miscela populismo-giustizialismo ha già provocato grossi danni al Paese. Se ne è accorto anche qualcuno che fino a ieri era dall'altra parte. «La mia vicenda racconta Luca Palamara, ex presidente di Anm che con le sue rivelazioni potrebbe diventare il Buscetta della magistratura italiana finirà l'8 ottobre. Hanno fatto in modo che arrivasse a conclusione prima che Davigo andasse in pensione. Avevo chiesto di sentire più di 100 testi e me ne hanno concessi sei.
Ho le carte per dimostrare che carriere e altro nascono dal gioco delle correnti; che è un problema di sistema, giusto o sbagliato che sia, non del sottoscritto. Ma ogni volta che intervengono mi accusano di fare un comizio. Comunque, l'8 ottobre parlerò. Forse anche di ciò che è successo a Salvini».
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