Da un’impronta sulla tastiera la prova regina dell’inchiesta

L’esposto del figlio del militare ucciso. Cruciali le tracce trovate su una macchina da scrivere

Nella foto Renato Curcio, anche lui indagato
Nella foto Renato Curcio, anche lui indagato

Una vecchia macchina da scrivere riapre la finestra, a quasi mezzo secolo di distanza, su un episodio cruciale nella storia del terrorismo rosso in Italia: il sanguinoso scontro a fuoco che nel giugno del 1975, vicino Aqui Terme, costò la vita al maresciallo dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e a Margherita «Mara» Cagol, fondatrice delle Brigate Rosse e moglie del loro leader Renato Curcio. Il bliz dei carabinieri portò alla liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia, rapito il giorno prima dai brigatisti in una delle loro prime imprese di autofinanziamento e tenuto prigioniero nella cascina Spiotta, teatro della battaglia tra terroristi e carabinieri. Il compagno che insieme alla Cagol custodiva l’ostaggio e che partecipò insieme a lei alla sparatoria con i militari non è mai stato identificato, benché il numero dei membri di spicco delle Brigate Rosse fosse allora piuttosto ristretto. Recentemente la Procura di Torino e i Ros dei carabinieri, con la collaborazione dei reparti scientifici dell’Arma, hanno riaperto l’inchiesta in base anche all’esposto del figlio di Giovanni D’Alfonso, il maresciallo che venne ucciso dai terroristi nel tentativo di aprirsi la strada verso la fuga. Dalle tracce lasciate all’epoca all’interno della cascina non è emerso nulla di utilizzabile. Ma uno spunto decisivo potrebbe essere venuto dalla macchina da scrivere trovata qualche anno dopo nel covo milanese di via Maderno, dove vennero arrestati Curcio e la sua compagna Nadia Mantovani. Nel covo venne sequestrata anche una ampia relazione dattiloscritta sui fatti della Cascina Spiotta, il cui autore - per i dettagli inediti che vi erano contenuti - era verosimilmente lo stesso brigatista che aveva partecipato allo scontro. Si trattava di una ventina di fogli, una specie di rapporto di servizio destinato probabilmente proprio a Curcio, e utile forse alla indagine interna decisa dalle Br per individuare gli errori che avevano portato al disastroso esito della «operazione Gancia». Da lì sono partite le nuove indagini, che hanno portato gli inquirenti torinesi a interrogare sia ex appartenenti alle forze dell’ordine sia alcuni esponenti del vecchio gruppo dirigente delle Brigate Rosse. Una attività resa possibile da fatto che il reato di concorso in omicidio non si prescrive mai, e doverosa dalla prospettiva di dare una risposta ai molti interrogativi ancora aperti sui fatti della Spiotta. «È importante - dice Bruno D’Alfonso, figlio del maresciallo ucciso - che dopo tanti anni ci sia ancora qualcuno disposto a scoprire qualcosa e a risolvere il caso. Non so quanto, ma oggi sicuramente la verità è meno lontana». A rendere tutto più difficile, nell’inchiesta-bis, c’è sicuramente il tempo trascorso, che fa sì che alcuni protagonisti non siano più in vita, che i ricordi degli altri siano fatalmente annebbiati, che la ricerca di riscontri materiali e documentali sia impervia.

Ma la ricostruzione potrebbe essere preziosa non solo per individuare il nome mancante (per il quale la prescrizione del reato sarebbe quasi certa, viste le attenuanti inevitabili, specie se dovesse trattarsi di un esponente - come quello citato qua sopra - che ha da tempo preso le distanze dall’esperienza della lotta armata) ma anche per completare il quadro storico del brigatismo delle origini. Per i quadri delle Brigate Rosse lo scontro della Spiotta divenne una sorta di spartiacque, un mito fondativo: la prova che non si poteva più tornare indietro.

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