Internet super veloce ci serve per davvero?

Internet super veloce ci serve per davvero?

Il Wall Street Journal ha fatto una ricerca che conviene riportare perché in effetti i suoi risultati sono interessanti soprattutto perché sembrano raccontare un altro mondo rispetto al nostro. Il quotidiano ha fatto un'inchiesta utilizzando cinquantatré dei suoi giornalisti sparsi per il Paese e avvalendosi della collaborazione delle università di Princeton e Chicago. Il reportage ha cercato di verificare quanta banda internet effettivamente sia necessaria per vedere la tv e scaricare pagine sul web. Le società telefoniche americane offrono sempre più megabits e si va da offerte che passano dai 100 fino ad arrivare ai mille megabits al secondo. Ma servono davvero? Per il Wsj «il beneficio di pagare per più di 100 megabits al secondo» è davvero piccolo, se non nullo.

Sia chiaro, stiamo parlando di velocità altissime, che noi ci sogniamo: sei famiglie americane su dieci hanno una connessione a internet pari a 100 mega o più alta. Ma la tendenza al consumismo tecnologico ha preso un po' tutti noi. Inoltre è aperto un grande dibattito su queste autostrade infrastrutturali: la loro portata crea l'offerta, o si rischia di costruire infrastrutture costose ma non molto utili per le utenze domestiche? Non si può certo accusare il quotidiano americano di antisviluppismo. E inoltre negli States la diffusione e l'utilizzo di televisioni on demand, tipo Netflix o Amazon prime, e Tv in diretta via rete è molto più diffusa che in Italia. Una ricerca durata mesi e che fa dire al Wsj, chissà la felicità dei suoi investitori pubblicitari, che le famiglie americane stanno spendendo troppo per qualcosa che non utilizzano. Il test è spietato. Uno dei giornalisti del panel ha simultaneamente attivato sette servizi di streaming sui suoi televisori e computer. Ha un collegamento a 150 mega al secondo, eppure il massimo che ha utilizzato sono stati 6,5Mbps, e cioè il 5 per cento della banda che ha pagato. Risultati simili si sono avuti per gli altri giornalisti, che hanno usato meno download e stream contemporanei.

Ovviamente la questione resta aperta. La realtà virtuale, il gaming più avanzato, scaricare file voluminosi potranno giovarsi di questi enormi tubi tecnologici. Ma conviene fare bene i conti, su cosa si cerca. Il Wall Street Journal è spietato e va avanti con lo sfatare alcune certezze tecnologiche che definisce, senza giri di parole, miti. Vediamoli.

1. È un mito che più banda faccia partire prima i video che si desiderano. Per i ricercatori la riduzione del ritardo nell'avvio è praticamente impercettibile, acquistando più banda.

2. È un mito che per vedere programmi in alta definizione serva più banda. La maggior parte delle televisioni sono Hd e cioè con risoluzione 1080p. Più Megabits non forniscono più qualità e, aggiungono i ricercatori, spesso gli editori forniscono qualità video intenzionalmente più basse per essere fruiti dai telefonini.

3. È un mito ritenere che lo streaming televisivo vi mangi molta della vostra banda. Netflix va sotto i 4 Mbpps e quindi dicono al Wsj non fa molta differenza se un utente paga per un abbonamento a 15 mega e uno che paga un giga.

Il problema, conclude maliziosamente il quotidiano, è che gli utenti chiamano spesso i call center lamentandosi del servizio e che a quel punto la risposta che si ottiene è quella di comprare più banda, poiché quella che si ha sarebbe insufficiente. Per la ricerca si tratta di balle.

Sempre negli Stati Uniti è apertissimo il dibattito su cosa possano intercettare i nuovi assistenti vocali: Alexa per Amazon, Siri per Apple e il Google assistent. Questi aggeggi parlano con noi utenti, ma soprattutto ascoltano. Pensate a quella famosa foto del fondatore di Facebook, Zuckerberg, che aveva coperto con un pezzo di scotch la telecamerina del suo pc, e vi vengono i brividi lungo la schiena. Altro che intercettazioni o trojan inseriti su ordine dei magistrati: il rischio è che le grandi multinazionali della rete sappiano tutto di noi. Ma il punto vero non è tanto il livello di tecnologia a cui esse sono arrivate, ma semmai la scarsa intelligenza dell'intelligenza artificiale. Un segreto di Pulcinella. Questi assistenti hanno bisogno dell'intervento dell'uomo: non riescono a capire tutti i nostri comandi o a intercettare tutti gli accenti. In America si definisce il dilemma di Austin, che spesso viene confuso con Boston o quello degli U2 che vengono interpretati come YouTube. Alcuni siti specializzati da tempo hanno pubblicato leaks, provenienti dalle grandi società della Silicon Valley, in cui si dimostra come loro dipendenti ascoltino i nostri comandi. Anche se l'obiettivo, per ora, non è quello di costruire un Grande Fratello, è inquietante sapere che Siri o Alexa possano intercettare le nostre conversazioni da salotto, o peggio da camera da letto. Brian Chen del New York Times ha così fornito, in prima pagina della sezione «Tech», alcuni utili consigli per evitare il controllo. Diviso per apparato. La scusa che tutti gli assistenti, e non solo loro, usano è chiedervi, in modo innocente, se volete contribuire al miglioramento dell'utilizzo dell'assistente vocale. È la porta di ingresso per il controllo umano, a ciò che voi chiedete ad Alexa, ad esempio. Andate nei controlli privacy e quando Amazon vi chiede se volete «aiutare Alexa a migliorare il servizio e sviluppare nuove funzioni» spostate il cursore su un deciso «no». Sempre su Alexa è consigliabile cancellare la cronologia delle registrazioni dei vostri comandi. Che paura. Non lo sapevate, come sulle pagine internet, esiste una cronologia. Siri di Apple è il più difficile da trattare: queste possibilità di opt out di Amazon, ad esempio, non ve le fornisce. La cosa migliore - continua il Nyt - è disabilitare completamente Siri. E se avete un orologio Apple le cose non vanno meglio. Su Google e i suoi insistenti assistenti vocali (io ad esempio non riesco a toglierlo di mezzo dal mio Huawei) occorre andare a smanettare su Google Activity sul sito di Google, appunto.

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È scomparso due giorni fa Giovanni Buttarelli. Il garante europeo della protezione dei dati. Da tempo sapeva di essere malato di Sla, ma questo non gli ha tolto un secondo del suo costante impegno nel difendere la nuova frontiera di protezione delle nostre libertà. Solo sei mesi fa partecipava alla tradizionale assemblea annuale dell'Auditel e con lucidità spiegava i motivi per i quali, la raccolta dei dati personali rappresenta, se non controllata, una minaccia per le società ormai digitali. E che dunque è necessario rendere consapevoli innanzitutto i cittadini di cosa cedono, fornendo informazioni private su loro stessi.

È cambiato infine il compito dei regolatori che non possono più guardare alla protezione della privacy con logiche del secolo scorso. Il tutto senza compromettere il libero mercato. Uno dei grandi civil servants di questo paese che rimpiangiamo.

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