Siamo nella periferia est di Roma, in un tratto di via Palmiro Togliatti dove le macchine passano veloci e le poche persone che si vedono in giro sono quelle che attendono sulla banchina della stazione ferroviaria. Proprio qui, da due mesi, è iniziato un insolito via vai di nomadi che attraversano i binari per raggiungere l’ennesimo accampamento della zona.
Il signor Antonio, casacca gialla e scopa in mano, è uno degli addetti alla pulizia dell’impianto: “Il lavoro - si sfoga - è sempre più difficile, ogni mattina il sottopassaggio ferroviario è invaso dagli escrementi e da ciò che resta di borse e portafogli rubati”. Lo seguiamo nel giro di perlustrazione ed ecco che, da un’intercapedine, spunta un portafogli di pelle nera: “Ne trovo almeno un paio alla settimana e quando posso li riconsegno ai proprietari, principalmente anziani, derubati fuori dai centri commerciali o sull’autobus”. Al piano di sotto, in un angolo del suo ufficietto, ci sono ancora decine di tessere sanitarie, carte d’identità, biglietti di auguri, lettere e persino santini mortuari che attendono di tornare a casa.
La nuova baraccopoli, immersa nel fitto della vegetazione, si trova ad appena 400 metri dal campo tollerato di via Salviati, a due chilometri da quello di via dei Gordiani ed a cinque dall’insediamento di via di Salone. Insomma, i residenti di Roma est si sentono accerchiati, ma hanno paura a parlare di fronte alle telecamere: “Quando voi ve ne andate, noi rimaniamo qui”. L’unico a metterci la faccia è Roberto Torre, il presidente del Comitato di quartiere Tor Sapienza, l’uomo che negli ultimi vent’anni ha dato voce al malessere e alla rabbia di questa periferia, dimenticata dalle istituzioni e avvelenata dai roghi tossici. Dall’alto del cavalcavia, Roberto scruta i tetti di lamiera che s’intravedono appena, non vuole avvicinarsi troppo alla favela, “mi riconoscerebbero”, ci dice. E allarga le braccia: “Dopo tanti anni di battaglie per chiedere lo smantellamento dei vecchi campi rom, ci troviamo alle prese con un nuovo insediamento”. La conclusione è amara: “Siamo diventati la discarica della Capitale”.
Per cercare di scoprire qualcosa di più, ci addentriamo tra l’erba incolta, facendo lo slalom tra rifiuti ingombranti e materiale di risulta. Accovacciato tra le sterpaglie c’è uno degli abitanti della baraccopoli che sta facendo rifornimento d’acqua da un vecchio acquedotto romano. Ci chiede qualche euro ed una sigaretta, poi si sbottona: dice di chiamarsi Roberto e assicura che “nel campo vivono cinque famiglie”. Sembra disponibile ma, quando gli diciamo che vogliamo seguirlo nell’insediamento ci fa capire chiaramente che la nostra presenza non verrebbe tollerata. Solo dopo una lunga trattativa riusciamo a parlare con il responsabile del campo, che ci raggiunge accompagnato da altre due persone. Braccia incrociate, pelle butterata, canottiera bianca e un grosso crocefisso d’oro che gli penzola sullo sterno, il ras dei rom ci guarda in cagnesco e ci avvisa: “È meglio se ve ne andate”. Perché? “Perché se fate le foto la polizia viene qui e ci sgombera”.
Non ci resta che togliere il disturbo ma, prima di lasciare la zona, parliamo con la signora Rosina, una simpatica settantenne che vive in una palazzina in ristrutturazione a poca distanza dall’accampamento. Dal suo balconcino fiorito si vede bene la favela, e la montagna di immondizia che la circonda e, al tempo stesso, la fortifica. Quella vista, ammette, le provoca “tanto dispiacere”. E non solo. Sì perché qualche notte fa si è persino trovata a dover sventare un furto.
“La mia cagnolina - racconta indicando la meticcia di piccola taglia che le gironzola attorno ai piedi - ha iniziato ad abbaiare, mi sono svegliata di soprassalto ed ho visto delle persone che si erano introdotte nel giardino e stavano portando via il materiale dal cantiere, ho subito chiamato la polizia”. Adesso, però, ha paura: “La notte qui non si dorme più tranquilli ed io, dopo aver lavorato per una vita, avrei diritto ad un po’ di riposo”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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