È trascorso un anno di guerra, centinaia di migliaia di morti, un Paese per tre quarti distrutto, drammi e tragedie senza fine, ma tutto sembra come prima. In realtà non è così. In un anno, ed è la grande disfatta di Vladimir Putin, è nata una nazione. Quelle terre che lo Zar definiva un'invenzione geografica di Lenin, si sono trasformate in un Paese e in un popolo che ha rivendicato la sua identità. Come pure il personaggio Zelensky, da comico prestato alla politica, è diventato un leader. E, ennesimo scorno per Putin, altri due nazioni, Svezia e Finlandia, hanno bussato alla porta della Nato e l'Ucraina, se guardiamo alla realtà e non alle scartoffie dei trattati, di fatto ci è entrata, visto che l'alleanza l'ha appoggiata in toto, come fosse un Paese membro. Ecco perché questi 365 giorni di guerra, con i suoi costi disumani, non sono passati invano.
L'Ucraina nei fatti ha già vinto. Bisogna partire da qui per ragionare con una buona dose di realismo sul futuro, perché se un anno di guerra pagato assai caro ha portato questi risultati (che non sono pochi), non ce ne possiamo permettere un altro sapendo che difficilmente l'attuale geografia cambierà. Ci saranno altri morti, altre tragedie, altri drammi. Ma è complicato, per non dire impossibile, che tutto il Donbass e la Crimea possano cambiare campo, possano tornare all'Ucraina. Kiev ci potrà anche provare e avrà tutto il nostro appoggio, come Mosca farà l'esatto contrario, ma l'equazione sul campo ha una logica spietata: gli ucraini hanno le armi ma non hanno gli uomini (sempreché l'Occidente non mandi a combattere lì i suoi, cosa che non farà mai); i russi hanno gli uomini (ne hanno schierati altri 300mila) ma forse, dico forse, non hanno armi sufficienti, anche se l'internazionale dei totalitarismi (Cina, Iran, ecc.) non li lascerà soli.
Ecco perché a un anno dall'inizio di questa mezza apocalisse è legittimo domandarsi se valga la pena continuare in una guerra che non prevede rese e non avrà mai una vittoria riconosciuta e una sconfitta definitiva. Avremo solo uno stallo che logorerà due Paesi e consumerà vite. Ragion per cui parlare di pace, immaginare una pace, aspirare ad una pace non significa dividere il proprio campo, lavorare per il nemico o tradire i propri valori, ma solo introdurre in questa follia generale un po' di ratio e di pietas.
Sentire nel giorno dell'anniversario ancora minacce su minacce, che la guerra andrà avanti chissà fino a quando, che ne avremo per un altro anno, come se il prosieguo del dramma sia ineluttabile, come se gli uomini non siano
padroni del proprio destino, ci fa precipitare nell'angoscia che caratterizzò le grandi guerre del secolo scorso. Ma proprio perché abbiamo negli occhi gli orrori di ciò che può accadere, non possiamo arrenderci all'impotenza.
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