Il Natale negli occhi dei bambini dimenticati da tutti

L'ex responsabile della Protezione Civile italiana racconta la sua esperienza in un ospedale affollato di umanità dolente

Il Natale negli occhi dei bambini dimenticati da tutti

Anche qui, a Pujehun, siamo ormai alla vigilia di Natale. Ovvio che non te ne accorgi e non senti la tipica atmosfera alla quale siamo abituati.Nessun addobbo, nessuna luce, nessuna frenesia di preparativi. Ma la festa arriva, è vicina ed in ospedale hanno un modo tutto particolare di prepararlo.Me ne sono accorto stamane, quando di buona lena e con l'ansia di vedere cosa era accaduto in corsia nelle ultime ore della notte, ho visto letti, armadietti, lampade e pazienti asserragliati nei prati circostanti.Tutto il personale stava mettendo a soqquadro la struttura per dare una bella ripulita a corsie, sale operatorie, sala parto, accettazione, ambulatori e astanterie varie. Una valanga d'acqua e sapone mi ha reso l'accesso impenetrabile, mentre fra schiamazzi, urla e canti vari donne, bambini e uomini pochi in verità - si affannavano a recuperare una situazione pseudoalluvionale che con le ore si andava complicando.Altri si divertivano a ripulire vetri e pareti, altri i soffitti con precari bastoni e stracci che cercavano di allontanare i consueti abitanti degli infissi e dei più reconditi anfratti. Ragni, blatte, lucertole ed altri insetti scappavano da ogni dove infastiditi da tanta solerzia, pronti ad impossessarsi di nuovo dei loro territori ad operazioni concluse.Mi hanno poi spiegato che si tratta della loro particolare usanza alla vigilia della festa, qualcosa simile alle nostre pulizie di primavera. Tanto qui non hai da cambiare il corredo con l'avanzare delle stagioni e la povertà che regna sovrana azzera ogni esigenza superflua, ogni ipotesi di cambiamento.A parte questa frenesia di mettere a nuovo il centro materno infantile, gli unici segni che qualcosa di importante si avvicina sono i pochi che lasciano il villaggio per andare a trovare parenti ed amici in altre regioni del Paese ed il brulicare di folla variopinta che, nei poveri mercati del luogo, si affanna per acquistare quel che sarà il pranzo della grande festa.Vedi nelle bancarelle abbondanza di pesce di fiume essiccato che emana i suoi olezzi fino alle strade limitrofe, scruti radici e tuberi simili a patate, forse cassava e manioca, foglie ed erbette pallidi esempi delle nostre verdure, zampe di gallina congelate di produzione cinese che qui sostituiscono il nostro cappone e si vendono a peso d'oro, per le loro magre tasche.È il Natale africano che si avvicina. Non ci sono presepi o alberi addobbati. Di bambinelli, invece, quanti ne volete, sporchi, con pochi stracci addosso, a piedi nudi ti accompagnano verso l'ospedale schiamazzando e giocando con un pezzo di cartone o una scatola di sardine vuota. Di tutta la coreografia e della liturgia natalizia, alla quale siamo legati e certe volte della quale siamo schiavi, qui non trovi nulla. Ma le mamme che dividono il letto con il loro bimbo ricoverato in corsia hanno le idee molto chiare sull'avvenimento e con fare dolce e deciso ti chiedono se Babbo Natale passerà anche da loro oppure se le renne e la slitta avranno difficoltà ad attraversare il Mediterraneo.Gli ho spiegato che il Babbo Natale viene solo se qualcuno gli scrive e gli chiede se hanno qualche desiderio. Hanno capito subito, non si sono perse d'animo, e con fare deciso mi hanno mostrato piatti, scodelle e cucchiai... vuoti.Avevo sottovalutato la proposta di Enzo di tornare a Pujehun quest'anno per sostituire Ottavia, la moglie straordinaria, regina della pediatria che voleva venire in Italia per abbracciare quei nipotini che aveva visto solo alla nascita.Il ricordo del bel lavoro dell'anno scorso quando, carpentiere improvvisato, avevo costruito in tre settimane il centro di isolamento per i malati di ebola mi ha tratto in inganno. Immaginavo un ritorno leggero, sereno, un impegno importante facile da eseguire sotto la guida attenta di Enzo.Ricordavo corsie quasi vuote, pochi bimbi e pochi problemi, immaginavo una nuova piccola avventura, il contatto con gente umile e pacifica, lezioni di vita vera e semplice, un distacco dagli eccessi del nostro tempo, dalle ansie e dalle amarezze oltreché, quello doloroso assai, della lontananza dalla famiglia e dagli amici.Mi piaceva come sempre l'idea di rimettermi in discussione, di affrontare una nuova sfida, di lavorare come semplice mozzo in una barca governata da veri lupi di mare, di immergermi di nuovo in un bell'oceano di umiltà.Da ex esperto di emergenze non avevo forse calcolato bene i rischi e non mi ero concentrato bene sulle previsioni dell'impegno. Non avevo calcolato che Enzo ed Ottavia l'anno scorso erano appena arrivati qui dal sud del Sudan e che in un anno avrebbero fatto del centro sanitario di Pujehun un luogo di fatale attrazione per chiunque cercasse, in questo Paese, un'isola di competenze, di impegno, di attenzione, di esperienza, un approdo di amore.Appena arrivato, dieci giorni or sono ho capito in che guaio enorme mi ero infilato.È bastato un giro nelle corsie con Ottavia, quel sabato pomeriggio, per intuire che sarebbero stati giorni durissimi e sentire esplodere dentro di me l'angoscia della responsabilità e dell'impegno. Quelle corsie deserte, quei letti spogli, quel silenzio quasi irreale di allora si erano trasformati in una bolgia di individui grandi e piccoli ammucchiati in ogni spazio disponibile, flebo, siringhe, sacche di sangue, concentratori di ossigeno, fiale e materiale vario in perfetto disordine si confondevano con infermieri, mamme, parenti ed altri personaggi variopinti, accompagnati da strepiti e pianti disperati di bambini e neonati che riempivano l'aria insieme al classico umore africano, miasmi di sangue, di sudore, di cacca, di piscio in un'aria bollente, soffocante, ciotole di riso, di zuppe varie, stracci variopinti, sandali, zoccoli, scarpe, mutandine, magliette, erano barriere ad ogni passo, il tutto mischiato in un gigantesco caleidoscopio in agitazione continua.Insomma un inferno vero, l'Africa, sempre e solo unica e immutabile!Neppure il tempo di disfare la valigia e piazzare cotechino e panettone nel frigo perché altrimenti con il caldo che c'è si squaglierebbero, e mi ritrovo con Ottavia a gestire due bimbi accasciati sui cosiddetti lettini per la rianimazione.Mentre lei agisce e mi spiega in barese stretto quel che dovrò fare da domani, vengo pervaso da un lucido terrore vedendomi da solo per le prossime settimane a combattere battaglie più grandi di me e diverse dalle mie ipotetiche capacità.Confido in Enzo, nella sua saggezza e capacità di accompagnarmi sminuendo anche le tragedie più grandi. Ma la speranza svanisce presto perché, appena partita Ottavia, mi accorgo che il nostro amico è di fatto invisibile e le statistiche, appese a bella posta nell'ufficio, me lo spiegano.In un anno quest'uomo è stato capace di ricoverare più di mille donne in gravidanza con tutte le immaginabili complicazioni del caso, ha fatto nascere mezzo migliaio di ragazzini di testa, di traverso, di piede, di mano, tagliando, spostando, spingendo, cucendo. Fra corsie, sala operatoria e sala parto non lo vedi mai. Ogni tanto pensa pure bene di prendersi un attacco di malaria e quindi ti sfreccia davanti come uno zombie febbricitante concentrato dalla chiamata dell'ennesima eclampsia o placenta previa.Eccomi qui allora, davanti ai casi più disparati e disperati, con mamme che ti affidano neonati che magari non fanno i loro bisogni oppure non succhiano il latte, con malnutriti di 3 mesi pieni di piaghe e che pesano poco meno di 4 chili, con bimbi dai fegati come quelli delle oche all'ingrasso, milze come meloni e occhi che ti trapassano e incantano.Febbri, tossi, pancioni, convulsioni, tremori, vomiti, pianti, strilli, un incubo mitigato da infermiere brave e capaci che sanno prendere una vena pure alla gamba del tavolo dove lavorano, lente, perché per loro salvare una vita è come bersi un cappuccino, tanto sanno che ogni madre da queste parti ha partorito 8 volte e magari ha due soli figli in vita.Ma il panico ed il terrore dei primi istanti sono svaniti, la lezione di Yirol, del sud del Sudan riemerge dalle nebbie e mi affianca, le parole e i consigli di Ottavia mentre sale sul battello che la porta all'imbarco dell'Air Maroc non li dimentico, il libretto magico sulle emergenze pediatriche che mi ha affidato Chiara e il suo gruppo di whats app creato a bella posta, mi assistono e accompagnano.Non mi sento solo, e combatto, con la tenacia dei bei tempi e la voglia di addormentarmi a tarda notte stremato ma con la minima misura di sensi di colpa possibile. Mi piacerebbe raccontarvi ancora, c'è molta differenza rispetto all'anno scorso, un altro Paese.Qui in Salone come la chiamano loro, abbreviazione di Sierra Leone, l'ebola si è assopito qualche mese fa ed il Paese ha festeggiato lo status di ebola free.In Liberia ci sono ancora casi, riesplosi dopo momenti di silenzio, ma la gente si è liberata di un incubo, senti la musica ed il suono dei tamburi anche di notte quando ti muovi per l'ennesima chiamata, vedi le scuole aperte e meno bimbi per le strade, i mercati pullulano dell'umanità tipica delle giornate africane, l'economia cerca di ripartire, incontri qualche bianco in giro.Ma non riesco ad andare avanti nello scrivere, mentre cerco di imbastire queste quattro chiacchiere sono stato interrotto tre volte dalla pediatric ward e quindi spegni, corri, raccogli al volo fonendo e libretto, vedi e intervieni.Poi torni, resetti la capoccia e continui. E poi debbo pensare ai regalini per tutti i bimbi ricoverati che ho comperato a Freetown prima di venire qui in un negozio di libanesi che ti spellano per una bambola cinese o un aeroplano di latta.Debbo prepararli e trovare un Babbo Natale che il 25 mattina, insieme alle medicine ed alla pappa gli faccia trovare sul bordo del letto qualcosa che non hanno mai visto.Anche se oggi Babbo Natale, per Adana, una bimba di 36 mesi con occhi a mandorla e ciglia che sembrano ventagli, è arrivato in anticipo.È stata ricoverata ieri sera, 39,5 di febbre, 4.3 di emoglobina, malaria positiva, un fegato che arriva all'inguine.«Give blood to her please», ho detto all'alba. Poco dopo arriva la nurse che mi dice: non troviamo il sangue per lei, è B-rh-negativo, raro, non se ne trova.Ok ci penso io, rispondo, è il mio gruppo e quindi mi sono sdraiato e 250 ml del mio sangue sono passati nelle sue piccole e tormentate vene. Basterà?Non lo sappiamo, non credo, è in condizioni disperate. Ora è sera tarda, lei vomita sangue, sembra che dorma, ogni tanto apre gli occhi e mi guarda, non è contenta di vedermi, mi associa al dolore dell'ago in vena ed alle tante manipolazioni che subisce ed al dolore della mamma che la scruta.Ma io vedo in lei la mia Aurora e le parlo, ho fatto un patto con lei: se vive un giorno la porto anche lei alle giostre, come faccio con la mia nipotina a Roma. Stanotte ci sono 13 bambini nei 9 letti del pronto soccorso, età da 4 giorni ai 4 anni.

Altri 14 in reparto e 9 nella stanza per i malnutriti. Tanti bambinelli in attesa del loro amico in arrivo. Ci sarà la luna piena quella notte, come in mezzo all'oceano, godetevela, la prossima tornerà solo fra 19 anni, beato chi la vedrà. State sereni e siate felici.

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