Non celebriamo il principio della guerra ma la sua fine

Dibattito sul '15 - '18

Non celebriamo il principio della guerra ma la sua fine

Lasciamola da parte, una volta per tutte, la retorica. Ma non indugiamo neppure troppo sul masochismo intellettuale e sul facile qualunquismo che spinge a denigrare la nostra storia e a darne una interpretazione semplicistica che non corrisponde alla realtà dei fatti. Ieri, Vittorio Feltri, con la sua prosa corrosiva e anticonformista, ha sparato a zero sulla partecipazione italiana alla Grande Guerra sostenendo che essa non si concluse con una «vittoria» ma con una «sconfitta in ogni senso, politico e militare» costata centinaia di migliaia di morti: «una enorme macelleria». Ho simpatia e stima per Feltri, ma mi sembra che, questa volta, egli abbia davvero esagerato con una vera e propria provocazione intellettuale suggerita da quel suo istintivo «anarchismo» che lo porta, spesso con ragione, a contestare il potere e chi lo rappresenta e lo esercita.

Nessuno può mettere in discussione il fatto che la Grande Guerra sia stata una strage, anzi, citando Benedetto XV, una «inutile strage». Né, tanto meno, per scomodare il dissacrante moralista viennese Karl Kraus, «la tragedia dell'umanità». Tuttavia non si può dimenticare che essa fu l'esito inevitabile di quel clima di «pace armata» che caratterizzava l'Europa dell'ultimo scorcio del secolo XIX e del primo decennio del XX e che si alimentava di tanti conflitti latenti: quello franco-tedesco per l'Alsazia-Lorena, quello anglo-tedesco per il dominio sui mari, quello austro-russo per l'egemonia nei Balcani e, non ultimo, quello italo-austriaco per le cosiddette terre irredente. In una situazione geopolitica siffatta, e in presenza di una diffusissima «cultura della guerra», sarebbe stato davvero impossibile per l'Italia rimanere estranea al conflitto.

Si parlò, all'epoca e anche dopo, dell'atto conclusivo del Risorgimento, della «quarta guerra di indipendenza». E non v'è dubbio che, retorica a parte, vi fosse, in tale approccio, una buona dose di verità. Ma v'è di più. La Grande Guerra fu, secondo la bella e pregnante espressione dello storico Piero Melograni (ripresa in seguito quasi testualmente da Giorgio Napolitano) «la prima esperienza collettiva degli italiani». Quel che accadde al fronte è significativo in quanto attraverso la condivisione di sofferenze e disagi e l'annullamento o la riduzione delle distanze sociali maturò un processo di robusta integrazione nazionale. Uomini con diverse mentalità, abitudini, esigenze si ritrovarono gomito a gomito sui campi di battaglia o nelle trincee riuscendo, persino, a superare le fortissime barriere linguistiche che li dividevano e li rendevano estranei l'uno all'altro. In tal modo la Grande Guerra contribuì a rafforzare l'identità nazionale facendo acquisire alla popolazione, anche a quella non direttamente coinvolta nelle operazioni belliche, il sentimento di appartenenza a una comunità nazionale impegnata in una prova terribile e sanguinosa.

In un certo senso, essa gettò le premesse per un coinvolgente desiderio di partecipazione delle masse alla vita politica e, sul terreno economico, determinò il brusco passaggio da una società ancora prevalentemente agraria a una società più complessa fondata sull'industria. Con tutto quello che tale trasformazione, pur avvenuta in maniera patologica e non fisiologica, finì per comportare: dalle migrazioni interne dalla campagna verso la città sino alla modifica della manodopera nelle industrie che videro la significativa crescita della presenza femminile. Accanto al completamento dell'unità nazionale con la vittoria e di «vittoria» non si può non parlare la Grande Guerra avviò, dunque, la modernizzazione del paese. Certo, i costi furono enormi, i sacrifici incommensurabili. Ma l'unità nazionale ne uscì rafforzata e il paese rinnovato. Non dimentichiamolo e non guardiamo alle celebrazioni della vittoria come a celebrazioni della guerra in quanto tale.

Anzi, è bene che i lati oscuri, gli aspetti più tenebrosi del conflitto non vengano celati proprio come ammonimento per il futuro. Ma evitiamo, per carità di patria, di riesumare un pacifismo ideologico e di maniera che sembra dettato dall'italico vizio dell'autodenigrazione.

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