Il papà salva adolescenti: "La droga ha ucciso mio figlio, io salverò voi"

Gianpietro Ghidini, manager bresciano, ha incontrato 70mila ragazzi per metterli in guardia dai rischi delle pasticche. Suo figlio Ema morì a 16 anni per un allucinogeno

Il papà salva adolescenti: "La droga ha ucciso mio figlio, io salverò voi"

Non hanno ancora la barba ma vivono drammi esistenziali più grandi di loro. Gli adolescenti. Soli davanti allo schermo del loro iPhone, con gli umori stile montagne russe, in balia di modelli fasulli e, spesso, pericolosi.

Gianpietro Ghidini li ascolta tutti, come fossero figli suoi. Non li giudica mai, li incoraggia a seguire i loro sogni. Parla con loro nell’aula magna delle scuole, nelle discoteche, negli oratori, nei bar dei bagni balneari e nei palazzetti sportivi, sempre pieni. Finora ha raccontato a 70mila ragazzi la sua storia. La storia di un padre, manager di successo, che perde un figlio e ribalta tutta la sua vita. Lui, 56 anni, nel novembre 2013 sente squillare il telefono nel cuore della notte: «Corri al fiume, è successo qualcosa a Emanuele». Emanuele, 16 anni, dopo aver provato una pasticca di droga a una festa, si getta nel fiume Chiese vicino a casa, a Gavardo, accanto a Salò. È in preda alle allucinazioni, il cervello gli va in corto circuito e in pochi secondi sparisce nelle acque gelide, proprio nel punto in cui da bambino libera il suo pesciolino rosso per non farlo morire nello stagno di casa.

«Da quel momento cambia tutto. Assieme al mio Ema perdo anche altre due grosse paure: quella di morire e quella di essere giudicato». Per un attimo Gianpietro, disperato, pensa di farla finita. Ma ha una moglie, Serenella, a cui si è da poco riavvicinato dopo un periodo di separazione, e due figlie: Alessandra, che ora ha 27 anni, e Giulia, che ne ha compiuti 18. Continua a vivere per loro e rilancia su quella vita che gli ha scombussolato cuore e viscere. Dieci giorni dopo il funerale del suo Ema, apre una fondazione, Il pesciolino rosso, e scrive un libro, Lasciami volare, che da poco è anche diventata un’opera teatrale in uno spettacolo realizzato dal regista Mauro Mandolini. Comincia la missione nelle scuole perché nessun altro ragazzo cada nella trappola che ha spezzato la vita di suo figlio. La sua è una battaglia contro la droga ma si rende conto che il sistema dello spaccio è impossibile da scalfire. Cerca allora di dare delle difese morali agli adolescenti. «Ragazzi, trovate il coraggio di dire no, non diventate schiavi di chi vi vuole rendere tali, tenetevi stretta la vostra libertà e non fatevi manipolare».

Dopo la morte di Emanuele, papà Gianpietro ridisegna tutta la sua vita, cancella ciò che è superfluo e definisce i dettagli delle piccole cose che contano. «Mi sono reso conto che fino a quel momento ho seguito la strada sbagliata». Imprenditore affermato, per tanto tempo è uno di quei padri che lavorano 15 ore al giorno. «Tornavo a casa tardi, quando i ragazzi dormivano già. Oppure ero talmente stanco e distratto che li ignoravo se mi chiedevano di fare la lotta sul tappeto. Lavoravo per garantire alla mia famiglia sicurezza e un buon tenore di vita. Credevo a chi mi faceva sentire un uomo di successo. Ma quanti giochi ho perso, quante lotte sul tappeto. Avevo comprato case di cui ora non so che farmene e sto cercando di disfarmi di tutto quanto. A che mi serve?».

Gianpietro trasforma il dolore in qualcosa di più forte. Innanzitutto in una leva per analizzare se stesso e per mettere a fuoco i propri errori. Dalla sua ha un’arma: parlare. Con i ragazzi e anche con gli altri genitori come lui: «Noi genitori abbiamo sbagliato tutto, abbiamo insegnato ai nostri figli che devono essere perfetti e avere successo. Arriviamo da una cultura di materialismo e accumulo, chiediamo sincerità ma abbiamo una vita piena di bugie». «E tante volte i nostri figli ci vedono come carabinieri e non come protettori, per questo non si confidano con noi». Gianpietro fa l’esempio di una ragazza, incontrata poco tempo fa in una scuola. «Era vittima di bullismo e di prese in giro su Facebook da un po’ di tempo. Stava cercando il coraggio di confidarsi con la madre, impresa per lei difficilissima. Ma quando, un pomeriggio, era sul punto di confessare tutto, si è sentita precedere da un “Metti a posto la tua camera, ma è mai possibile che qui dentro è tutto sottosopra?“. La ragazza ha chiuso la porta e non ha più raccontato nulla. Noi genitori urliamo, siamo stressati, vogliamo insegnare la disciplina. Ma la vita interiore dei nostri figli ci è sconosciuta. Signori, cambiamo rotta, così non va. Abbiamo insegnato che conta l’aspetto estetico, andiamo a fondo dell’anima dei nostri ragazzi».

I 16enni delle scuole di tutta Italia vedono in Gianpietro un confidente a cui puoi dire tutto, senza paura di castighi o sfuriate. E gli scrivono su Facebook (la sua pagina supera i 500 soci e i 10 milioni di contatti), sul sito della fondazione, via mail: raccontano delle loro delusioni d’amore, delle canne, della droga provata per caso, dei problemi che hanno in famiglia. «I giovani si sentono sempre messi alla prova e per questo faticano ad essere loro stessi. Credono di non essere in grado, non hanno fiducia in loro stessi. Con me si aprono facilmente e io con loro non parlo solo della droga che ha distrutto il mio Ema. Parlo di vita. Vorrei tanto poterli aiutare a essere felici: ma se saranno egoisti e prevaricheranno gli altri, come ha fatto la generazione di noi adulti, allora felici non lo saranno mai».

Alla fine delle conferenze, in ogni istituto, c’è la fila per stringere la mano e «dare il cinque» a questo papà coraggioso, straziato dal dolore ma tanto bravo a capire. «Un giorno mi ha scritto una ragazzina. Aveva pensato al suicidio ed aveva anche preparato la lettera da lasciare alla madre. Quella mattina qualcosa l’ha spinta ad andare a scuola e ci siamo conosciuti. Non ha più pensato alla morte, ma alla sua vita». Gianpietro e sua moglie Serenella vengono contattati anche da tante mamme, preoccupate per il figlio che fuma e che chissà cos’altro prende. Da padri che sono perfettamente consapevoli di essere troppo assenti. «Io non ho ricette, parliamo, ci confrontiamo».

Tante volte basta solo questo: parlare, occhi negli occhi, attività sempre più demodé. Dopo gli incontri (anche con 4mila persone in una volta sola) di Gianpietro, tante volte scatta una specie di meccanismo virtuoso, per cui tra amici e in famiglia si comincia a parlare dei propri stati d’animo senza più inibizioni.

E magari qualcuno trova pure la forza di dire no a quelle dannate pasticche sintetiche offerte nelle feste del fine settimana, senza paura di essere deriso dal gruppo o di venir tacciato come uno sfigato. Ma orgoglioso di pensare con la propria testa.

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