Quando il Natale si tinge di giallo: ​delitti irrisolti a Milano e dintorni

Casi mai risolti, delitti efferati in cerca d'autore: sono tanti i fascicoli negli archivi dei tribunali oramai coperti dalla polvere

Quando il Natale si tinge di giallo: ​delitti irrisolti a Milano e dintorni

Delitti irrisolti, indagini rimaste sospese, fascicoli coperti dalla polvere negli archivi del tribunale. Sono tanti i gialli di Natale che non hanno mai avuto una soluzione: storie di vittime che non sono riuscite a trovare giustizia, di genitori, parenti e amici che non hanno smesso di farsi domande. Storie piene di ombre: nessun testimone, nessuna prova, nessun’arma del delitto. Assassini che restano fantasmi, senza un volto né un nome.

Il procuratore legale freddato con la pistola di Dylan Dog

Un unico colpo, dritto al petto. È un freddo sabato sera a Milano, la pioggia è incessante e mancano pochi giorni al Natale del 1996. Quel 21 dicembre, Claudio Del Forno, procuratore legale di 35 anni, è uscito da casa vestito di tutto punto, in giacca e cravatta. Sarebbe andato in discoteca – ha detto al padre Luigi, ex corista alla Scala – se avesse trovato un amico disposto ad accompagnarlo. Non ha fatto in tempo a cercarlo. Alle 21,30, davanti al civico 12 di piazzale Accursio, viene raggiunto da un unico proiettile, esploso a distanza ravvicinata. Nessun testimone e nessuna telecamera di videosorveglianza nelle vicinanze. Un unico indizio: l’arma usata per ucciderlo. Si tratta di una pistola vecchia di almeno un secolo che i lettori di fumetti conoscono bene: è l’arma di Dylan Dog. Troppo poco per far luce su un delitto che da vent’anni è avvolto nel mistero. Eppure quell’omicidio non passa inosservato. Nonostante l’acquazzone che si abbatte sulla città, sulla piazza c’è un gruppo di sei amici con l’abitudine di ritrovarsi sotto la tettoia di una giostra, per decidere come trascorrere la serata. Hanno tra i 17 e i 24 anni. Sentono tutti lo sparo ma non ci fanno caso perché – diranno in coro ai carabinieri –, pensano a un petardo. Una di loro, Debora, dopo qualche istante si volta. Vede Claudio disteso per terra, con addosso un impermeabile macchiato di sangue. Il Killer è sparito. Si avvicinano e, con loro, un passante col cane che non sarà mai identificato. Un altro dei ragazzi, Bruno, racconterà agli investigatori di aver notato una Y10 di colore blu metallizzato. A bordo vi è un ragazzo che può avere 25 anni, un cappellino di lana e i capelli lunghi fino alle spalle, con la barba incolta. Nel vicino ristorante di via Tavazzano un altro uomo, il signor Riccardo, seduto con la moglie, racconterà di aver visto una Golf a fari spenti, che sbanda e sbatte contro una Mercedes parcheggiata, poi fa retromarcia e riparte. Entrambe le testimonianze non portano a nulla: ad uccidere può essere stato chiunque.
Del Forno è un ragazzone difficile: laureato ma mai diventato avvocato, si porta dietro problemi da quando, a 10 anni, viene investito da un’auto, picchia la testa e finisce in ospedale. Ne esce con disturbi psichici, paranoia e manie di persecuzione. Qualche crisi, quattro mesi in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio all'inizio del '95, discussioni per nulla e spesso liti col primo che passa. Ma niente di così grave da meritarsi una pallottola al cuore. I carabinieri battono molte piste, analizzano alibi e possibili moventi dei conoscenti e dei pochi amici del 35enne. Viene fuori che è solito importunare le prostitute di piazzale Accursio, che non è mai una buona cosa. Ma niente più.
Poi gli investigatori si concentrano sulla ricerca dell'arma dell'omicidio. Il proiettile che ha raggiunto Claudio, calibro 10,4, è stato sparato – si legge nella relazione tecnico-balistica - da un revolver verosimilmente prodotto tra fine ‘800 e inizi del '900. Con ogni probabilità si tratta di una Glisenti Bodeo. I carabinieri riescono a rintracciarne 17 che vengono tutte sequestrate. Nessuna, però, ha inciso le striature che marchiano la pallottola mortale. Il colpo è partito da una diciottesima, che non sarà mai trovata, proprio come l’assassino.

L’antiquaria sgozzata di notte nel suo bizzarro appartamento

Adriana Levy è una donna forte e coraggiosa di 66 anni. È sopravvissuta alla guerra, all’orrore nazista, ai campi di concentramento e al suo secondo marito. È un'antiquaria, proprietaria del negozio “Il Cenacolo” e la sua casa, al pianterreno di Corso Magenta, a Milano, è piena di pezzi di valore. È la sera del 19 dicembre 1989 e a cena, per gli auguri di Natale, ci sono sei ospiti. Nessuno di loro la rivedrà. A trovarla, il giorno dopo, in terra davanti alla camera da letto, in camicia da notte, col volto tumefatto e in una pozza di sangue, sono la domestica e il dipendente del suo negozio che quella mattina si allarma perché non la vede arrivare. È stata colpita probabilmente con un pesante candelabro, mai rinvenuto, e accoltellata al collo e al torace. Dai cassetti aperti mancano gioielli e soldi per alcune decine di milioni di lire. Una finestra è aperta: la via di fuga, forse non la via d’ingresso dell’assassino.
Inizialmente si pensa a una rapina finita male che di certo, però, non può giustificare tanta ferocia. Molte cose non tornano. Qualche giorno prima la donna riesce a sventare una rapina a casa sua e si trova faccia a faccia coi ladri. Fa denuncia ma non riconosce nessuno dei volti sugli album delle foto segnaletiche della Questura. I poliziotti della squadra Omicidi, guidati dall’allora sconosciuto sostituto procuratore Antonio Di Pietro, magistrato di turno la notte del delitto, concentrano la loro attenzione su uno degli ospiti invitati alla cena. È un uomo di 35 anni, con moglie e figli, che da un annetto è diventato un amico speciale della vittima: l’accompagna alle occasioni mondane e a fare spese. Quando gli altri presenti vanno via, si ferma a casa della donna. È lei stessa a chiederglielo per dargli il suo regalo di Natale. La moglie racconterà di averlo visto in casa, davanti alla televisione, più o meno all’ora dell’omicidio. Qualcosa nel suo alibi non torna, ma su di lui non ci sono prove.
C’è un altro mistero che ossessiona gli investigatori. Quella notte scatta l'allarme di casa collegato alla questura alle 3,21 e viene reinserito in modo sospetto. Una volante arriva, non nota nulla di strano e va via. Il mattino seguente, durante i rilievi, l'antifurto viene trovato inserito in tutta la casa. Strano perché la donna si preparava ad andare a letto, quindi in quel quadrante doveva aver disinserito l'allarme, come faceva sempre. Non basta. I punti luminosi sul pannello di controllo segnalano che una persona ha attraversato tre settori dell'appartamento, ma non ha toccato il quarto. Invece è proprio in questa zona che si trovano i cassetti rovesciati, dove erano custoditi gioielli e soldi trafugati. Si pensa che qualcuno, che conosceva l'antifurto, l'abbia reinserito dopo l'omicidio, senza rendersi conto però della traccia lasciata dai passaggi nelle stanze.
Si fanno nuovi accertamenti, si battono altre piste, poi nulla. Neppure un nome verrà iscritto nel registro degli indagati.

L’universitario ucciso e gettato nel lago Maggiore

"Ci vediamo più tardi", dice ai suoi genitori, poi svanisce nel nulla. È la sera del 7 dicembre del 1990, sono da poco passate le 21 e Gianluca Bertoni, universitario di 22 anni, esce in macchina: deve raggiungere Barbara, la sua fidanzata, che abita a poche centinaia di metri da casa sua. Per giorni il padre Giancarlo e la madre Laura vivono aggrappati a quelle parole pronunciate dall’unico figlio: un ragazzo tranquillo, studente modello al quarto anno della facoltà di veterinaria. A Somma Lombardo, in provincia di Varese, nessuno ha più sue notizie. Si pensa al sequestro di persona a scopo di estorsione. Ma i Bertoni non sono ricchi: hanno conquistato una certa agiatezza dopo anni di sacrifici. Da contadino e con tanto duro lavoro, il capofamiglia è riuscito a diventare un funzionario della Olivetti, ma di soldi in casa non ce ne sono molti.
Qualche giorno dopo, a Cadrezzate, vicino al laghetto del Margin, quattro cacciatori trovano semisepolta dalla neve e completamente bruciata la carcassa dell’auto di Gianluca. Il ragazzo sembra svanito nel nulla. Poi, a metà gennaio, Carlo Marcon, il custode di un residence di Ranco, avvista sull'arenile, semicoperto da un sacco nero, il cadavere incaprettato del ragazzo. L'autopsia eseguita a Varese rivela che la morte è stata provocata da un colpo sferrato al capo, forse con un cric o con una grossa pietra, e che il decesso risale con molta probabilità a qualche ora dopo la scomparsa. Le modalità del delitto fanno pensare alla malavita organizzata: si fanno a diverse ipotesi, ma nessuna riesce a portare alla verità. Non ci sono testimoni: solo un passante che racconta di aver visto Gianluca nella sua auto con due sconosciuti la sera della scomparsa. Ma per gli investigatori, che continuano incessantemente a cercare di ricostruire l’accaduto, è troppo poco.
Qualche mese dopo, si fa avanti una ragazza di 22 anni, Sabrina Conti, che racconta che l’omicidio è legato a vecchi rancori per questioni di donne che avrebbero provocato una lite poi finita nel sangue. Punta il dito su due fratelli, conoscenti della vittima, che finiscono in manette. Poi viene fuori che la testimone si è inventata tutto, per vendicarsi dell’ex, uno dei due ragazzi che l'ha lasciata dopo una storia di tre anni. Solo un depistaggio e si deve ricominciare da capo.

Passano gli anni e, nel 2009, l’inchiesta sembra a una svolta: analizzando tutti i reperti a disposizione, grazie a nuove e sofisticate tecniche, vengono rilevate nuove impronte e tracce di dna, che hanno consentito l’identificazione di due nomi, finiti nel registro degli indagati. Poi più nulla, altri anni di silenzio: l’assassino di Gianluca è ancora in libertà.

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