Una storia troppo grande. Prova a spiegare che cosa sono stati i 30 anni del Milan di Berlusconi e ti troverai di fronte a qualcosa di difficile da ridurre a una definizione. Perché è qualcosa che va al di là di una squadra di calcio e del suo presidente, di un club e le sue vittorie, del calcio, dei campioni, degli allenatori. Il 20 febbraio 1986, quando le agenzie di stampa battono la notizia dell'acquisto del Milan da parte di Silvio Berlusconi, è cambiato il mondo.
Di più: è cambiato tutto. Una svolta enorme, troppo grande, appunto. Il Milan era un club importante, ma in crisi. Trent'anni dopo è il club che ha vinto di più nel mondo dal 1986 a oggi. Cinque coppe dei Campioni, due Intercontinentali, un mondiale per club, 5 Supercoppe europee, 8 scudetti, 6 Supercoppe italiane, una Coppa Italia. Fanno 28 trofei. I numeri spiegano solo fino a un certo punto. Perché questa non è solo una storia di successi, ma uno snodo fondamentale per il calcio internazionale. Ciò che si vede oggi: stadi migliori, dirette televisive, comunicazione, marketing, cura per i dettagli, alta definizione era inimmaginabile all'epoca. È stato quel giorno che è cominciato tutto. «Il vero Berlusconi è quello del calcio», ha detto Fedele Confalonieri qualche giorno fa. Il sottotesto si riassume in una parola che è al tempo stesso sostantivo e aggettivo: visionario. Berlusconi aveva visto ciò che nessuno era fino a quel momento riuscito anche soltanto a immaginare. Il calcio era già pieno di ricchi signori appassionati che spendevano il loro patrimonio per vincere.
Con lui, trent'anni fa, nel pallone è entrato il concetto di azienda. E contemporaneamente quello di spettacolo inteso nel senso più ampio, a cominciare da quello in campo: il Milan degli invincibili è stato rivoluzionario proprio perché ha unito il gioco e l'innovazione, la contemporaneità di un club che si specchia nel pressing, nelle verticalizzazioni, nelle giocate che oggi sembrano scontate e che all'epoca erano inedite. Anche il calciomercato è cambiato con l'era berlusconiana. Qualche giorno fa il presidente ha fatto i conti: ha speso quasi 800 milioni di euro. L'ha fatto andando a comprare calciatori con Adriano Galliani e Ariedo Braida, poi con il solo Galliani, scegliendoli con un'idea precisa: che fossero da Milan. Dove per essere da Milan s'intendeva che fossero tecnicamente forti, capaci di stare in squadra, e che avessero qualcosa da dire. Con i piedi e con la testa, prima che con le parole. Mitologica la storia dell'acquisto di Van Basten, che da sola basterebbe a spiegare che cosa sono stati questi 30 anni. Così come quella di Gullit, ma anche gli acquisti che sembrano più scontati, come quello di Massaro. C'era un progetto. C'è sempre stato un progetto. Così come quando è stato comprato Alessandro Nesta, in chiusura di un mercato in cui tutti lo volevano. Nesta era da Milan e Nesta è stato il Milan. C'è poi un altro aspetto: la capacità di diventare un club globale. Il Real era già dagli anni Cinquanta una squadra conosciuta in tutto il mondo, così l'Inter di Herrera, lo stesso Milan vincitore delle Coppe dei Campioni versione anni Sessanta, o la Juventus a cavallo dei Settanta e Ottanta.
Ma essere conosciuti al mondo ed essere autenticamente internazionali sono due cose molto diverse. Con il Milan di Berlusconi è cominciata l'era della globalizzazione del pallone, che ha addirittura preceduto quella della società. Senza quel Milan ci sarebbero ovviamente il Real e il Barcellona, ma non sarebbero come li conosciamo oggi. Casi come Paris Saint-Germain, Chelsea e Manchester City invece non esisterebbero neanche. Al netto del tifo, delle polemiche politiche, delle battaglie a prescindere, il portato innovativo del Milan negli ultimi 30 anni è indiscutibile. Viene da ridere adesso a risentire alcune dichiarazioni dell'epoca, come quella di Stefano Tacconi a cui chiesero che cosa ne pensasse di Berlusconi che arrivava a Milanello in elicottero. L'allora portiere della Juventus disse più o meno così: «Gli servirà per scappare quando i tifosi lo inseguiranno dopo le sconfitte a San Siro». Lo scetticismo di qualcuno si specchiava nell'esaltazione di altri. Basterebbe, per esempio, ripescare un articolo di Repubblica il giorno della presentazione di Dario Bonetti, primo acquisto di calciomercato dell'era berlusconiana: il presidente era celebrato come un genio persino nella scelta dei vini della sua cantina. È lo stesso giornale che per vent'anni ha fatto una guerra senza quartiere al medesimo Berlusconi. Ma nessuno in buona fede oggi può sognare di non dare a questi trent'anni un valore gigantesco. Qualcuno ovviamente ci ha provato, ma a essere onesti sono molti di più quelli che al Berlusconi presidente del Milan sono legati a doppio filo, nonostante eventuali divergenze politiche: perché il calcio è il calcio, per fortuna. Anche il tifoso più scettico, più diffidente, più esigente guarda a questi anni con la gratitudine che si deve a chi ti ha cambiato la vita. La prova sono stati due episodi che hanno scritto la storia del calcio e del tifo: la trasferta di Barcellona, in occasione della finale di Coppa dei Campioni contro la Steaua Bucarest. Un esodo di 90mila persone, la più grande trasferta di massa che il calcio ricordi.
Poi quella di Atene, per la vittoria della Coppa dei Campioni stavolta contro il Barcellona. È la grandezza diventata realtà. È una squadra gigantesca quella che in tre decenni ha avuto in ordine sparso Baresi, Maldini, Costacurta, Gullit, Van Basten, Rijkaard, Ancelotti, Donadoni, Papin, Weah, Boban, Savicevic, Leonardo, Nesta, Rui Costa, Shevchenko, Ronaldinho, Rivaldo, Kakà, Inzaghi, Pirlo, Crespo, Thiago Silva, Ibrahimovic. Altro? Sì. Perché vale la pena ricordare qualcosa che oggi sembra scontato ma che, mentre il futuro si compiva, normale non lo era per niente: il Milan di Berlusconi ha inventato un modo di costruirsi dalla panchina innovando, creando, costruendo. Una linea che unisce Sacchi, Capello, Zaccheroni, Ancelotti, Allegri. Nessuno di questi prima di essere al Milan era ciò che è diventato dopo il Milan. Dettagli? Oggi diamo tutto per scontato. Ma prima del Barcellona di Guardiola e poi di Luis Enrique, nell'era contemporanea ci sono stati il Milan di Sacchi e di Capello. Il gioco, l'idea di vincere da Milan, ovvero creando, imponendo, dominando. Qualcuno si chiederà: ma è stato il tempo? Se entri a Milanello la risposta che ti viene è no. È stato l'uomo. Gli uomini. Perché anche un semplice centro tecnico racconta la portata rivoluzionaria di questi trent'anni: prima del 1986 ai campi di allenamento ci si andava per mettersi in campo, farsi la doccia e scappare.
Da allora sono diventati i quartier generali delle società, i luoghi mitologici in cui si costruiscono formazioni, moduli, strategie. I trent'anni di Berlusconi al Milan si raccontano anche lì. Sembra meno epico, forse. Ma significa molto.Giuseppe De Bellis- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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