Quattro necrologi, quattro di numero. Uno della figlia, due di colleghi. Il quarto messaggio d'addio al poliziotto Antonio Pagnozzi porta firme che dicono qualcosa solo a chi conosce la storia degli anni terribili in cui il ragazzo di Cervinara iniziava la sua carriera nella Questura di Milano: è firmato da Gemma Capra e dai suoi figli, e ricorda «Antonio, amico leale e generoso del nostro Gigi». Gigi era Luigi Calabresi, commissario dell'ufficio politico, assassinato alle spalle da Lotta Continua in via Cherubini nel 1972. E Antonio era Antonio Pagnozzi, che visse affianco al collega il linciaggio mediatico di cui fu vittima, e che fu tra i primi ad accorrere in via Cherubini. Le foto dell'epoca lo mostrano attonito, insieme ai colleghi, davanti al sangue di Calabresi. Pagnozzi nei decenni successivi fece la storia della polizia milanese. Eppure ieri, nella chiesa di San Giovanni a Città Studi, a dargli l'addio sono in pochi. E dopo che la bara parte per Cervinara, uno dei presenti si sfoga: «È una vergogna che nessun rappresentante della polizia di Milano fosse presente. Eravamo in quattro, e tutti ex». Amarezza comprensibile. C'è il Covid, e bisogna evitare gli assembramenti, va bene. Ma invece dell'assembramento, in chiesa intorno al dottor Pagnozzi c'era quasi il deserto, come nella pagina dei necrologi.
Eppure quello che di buono si è fatto in questi anni a Milano nella lotta al crimine è figlio in parte dell'eredità di Pagnozzi, che si trovò a dirigere uno dopo l'altro i tre uffici più delicati mentre il mondo stava cambiando. Dirigeva la Digos quando la violenza terrorista appariva fuori controllo, comandò per dieci lunghi anni la Squadra Mobile nella fase rovente dell'Anonima Sequestri, approdò alla Criminalpol in tempo per combattere i clan del narcotraffico: e ogni volta seppe costringere quegli apparati a reinventarsi, a cambiare marcia. «Non bastava più - raccontò a Franco Presicci del Giorno, maestro di una generazione di neristi - intrufolare il poliziotto coraggioso e abile nei viluppi del malaffare, affidare un'indagine a un singolo investigatore. Bisognava creare un'équipe». Il lavoro di squadra costringeva a rivedere vecchi riti, a scrostare ruggini nelle modalità investigative. Funzionò. E anni dopo a Pagnozzi venivano ancora gli occhi lucidi quando ricordava gli ostaggi che era riuscito a riportare a casa, dopo averli ritrovati in condizioni pietose, ma vivi. Da Milano partì per una carriera di questore che a 62 anni lo avrebbe portato al punto più alto della sua carriera, la questura di Roma.
Ma non aveva mai dimenticato via Fatebenefratelli, la grande stanza al terzo piano, l'inflessibile appuntato Spina in anticamera, la processione dei cronisti. Pagnozzi amava Milano, anche se ieri non è stato ricambiato.
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