L'uomo che uscì vivo dal "Gran Mare di Sabbia"

Nel posto che inghiottì l'armata persiana del Re Cambise, l'atleta estremo Stefano Miglietti ha camminato per quasi sei giorni, completamente solo

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Se gli egiziani lo chiamano "Il Gran Mare di Sabbia" un motivo deve pur esserci. Qui il sole non scalda: giudica. Una distesa dorata che luccica e divora. È qui, tra dune a perdita d'occhio e silenzi essiccanti, che il 20 gennaio 2006 l'atleta estremo Stefano Miglietti - bresciano, imprenditore nella vita - ha compiuto l’impresa che nessun uomo prima aveva osato nemmeno sognare: 550 chilometri in solitaria, in completa autosufficienza, trascinandosi appresso un carretto da 95 chili con tutto l'essenziale per provare a sopravvivere, dal cuore dell'oasi di Farafra fino alle acque miracolose di Siwa.

Una delle prime imprese di Miglietti, questa, dato che da allora l'atleta ha proseguito a lungo la sua sfida con gli scenari più inospitali, anche di recente (https://blog.ilgiornale.it/ruzzo/2019/11/19/stefano-e-giulia-nel-deserto-le-barriere-non-esistono/).

Cinque giorni e ventitre ore di camminata. Tanto gli è servito per sconfiggere non il deserto — che non si vince mai — ma le proprie paure, la sete, il peso stesso dell'impossibile. Quando è partito, all'alba tiepida di Farafra, il carretto sembrava quasi beffardo: 95 chili di acqua, alimenti, attrezzatura e medicinali caricati su due ruote robuste, come una zattera in un oceano che ignora qualsivoglia sentimento di pietà. Ma Miglietti aveva uno sguardo che non tradiva esitazioni. Aveva letto, studiato, ascoltato: sapeva che cinquecento anni prima Cambise, re dei persiani, aveva perso cinquantamila uomini proprio lì, inghiottiti da una tempesta di sabbia capace di seppellire anche la tracotanza imperiale. E lui, da solo, sfidava lo stesso mostro.

Il Gran Mare di Sabbia, con le sue onde pietrificate e le sue trappole invisibili, è uno degli angoli più ostili del pianeta. Di giorno, il sole prosciuga la vita col suo abbraccio incandescente; di notte, il gelo strappa la pelle e la lucidità. Ogni chilometro è un massacro. Miglietti ha dovuto lottare contro la stanchezza, contro la disidratazione, contro il pensiero che, in fondo, sarebbe bastato fermarsi un attimo per lasciarsi inghiottire. Eppure ha proseguito, passo dopo passo, chilometro dopo chilometro. Trascinava il carretto come un moderno Sisifo, anche se che qui non c’erano divinità a condannarlo, solo lui stesso a pretendere il massimo da ogni muscolo, da ogni respiro.

La preparazione era stata minuziosa. Mesi passati a simulare condizioni estreme: camminate di dieci, quindici ore consecutive sotto il sole, prove di traino su sabbia e ghiaia, notti all’addiaccio. Ogni litro d'acqua calcolato al millilitro, ogni razione alimentare pensata per pesare poco e nutrire molto. Nulla era stato lasciato al caso, perché nel deserto ogni errore si paga con la vita.

Il secondo giorno, il vento si è alzato, furioso. Una tempesta di sabbia, non diversa da quella che aveva seppellito Cambise, lo ha investito in pieno. Per ore, Stefano ha camminato a testa bassa, cieco, strisciando contro raffiche che non concedevano tregua. "In quei momenti — ha raccontato — smetti di pensare. Ti affidi a qualcosa che è più profondo della volontà: una specie di istinto primordiale."

Al quarto giorno, le scorte d’acqua hanno iniziato a scarseggiare. Ogni sorsata era una scelta, ogni chilometro una scommessa. Ma la meta, laggiù, invisibile oltre l'orizzonte, lo chiamava. Siwa, l’oasi leggendaria dove Alessandro Magno cercò il responso degli dèi, diventava la stella polare, la promessa di sopravvivenza e di compimento. Quando, alle prime luci del sesto giorno, Stefano Miglietti ha visto luccicare i primi palmizi, non ha esultato. Si è fermato. Ha poggiato il carretto a terra. E ha guardato il cielo, ringraziandolo in silenzio. Non per averlo salvato, ma per avergli permesso di misurarsi.

"Sul deserto non hai potere," ha detto poi. "Non puoi conquistarne un solo granello. Puoi solo attraversarlo, se lui lo permette."

Un'impresa così non si racconta, si tramanda. Perché c’è qualcosa di antico in quello che Miglietti ha fatto: un'eco di quei tempi in cui l'uomo non cercava di dominare la natura, ma di comprenderla, di rispettarla, anche a costo della propria vita.

Stefano Miglietti non ha soltanto percorso 550 chilometri in un contesto infernale. Ha scritto, con i piedi e con il cuore, una pagina che parla di coraggio, solitudine e dignità.

In un mondo che corre veloce e dimentica in fretta, lui ha lasciato un solco profondo. E forse, chissà, da qualche parte sotto quelle sabbie che tutto cancellano, l'ombra dell’armata di Cambise ha sorriso, vedendo finalmente un uomo passare.

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