Quando la piazza si gonfia e si muove, è come un fiume che incanta e spaventa. Per questo, quando le piazze si moltiplicano e si riempiono più o meno spontaneamente, c'è sempre un punto in cui la sacrosanta partecipazione emotiva agli ideali di chi protesta si tramuta in sottile disagio per la piega che possono prendere gli eventi di massa.
Da giorni assistiamo alle manifestazioni di solidarietà nei confronti della comunità afroamericana, per cui la morte di George Floyd è una ferita sanguinante e inaccettabile. Abbiamo visto capi di Stato inginocchiarsi, cortei, balli, striscioni, perfino qualche inevitabile tensione. Eppure l'idea di un mondo unito dal rifiuto per i metodi violenti a sfondo razziale era talmente positiva - inspiring, direbbe qualcuno - da mettere in secondo piano le tante ipocrisie dei discutibili sepolcri imbiancati (o anneriti?) da tastiera e perfino gli happening politicizzati di Milano e Roma, trasformati in propaganda spiccia per lo «ius soli». Non è questo il tempo di polemizzare su questo tema, davvero. Ci si può dividere su cittadinanza e sanatorie, non su un valore universale come il no al razzismo.
Ciò detto, forse però ieri il sottile crinale fra la presa di coscienza globale e la nascita di un'inquietante marea minacciosa è stato oltrepassato. È accaduto a Bristol, in Inghilterra, dove una folla di ragazzi ha abbattuto la statua di Edward Colston, l'ha calpestata, imbrattata e infine gettata nell'acqua dei docks. La colpa di Colston è quella di essere stato un mercante di schiavi nel Seicento. Quindi simbolo di quel colonialismo eurocentrico di cui oggi il movimento Black Lives Matter vuole estirpare ogni ricordo.
Ed è qui che subentra il disagio. Perché un conto è lottare per i diritti di ogni minoranza, un altro è pretendere di cancellare la storia, giudicando con la morale di oggi il mondo di tre secoli fa. Il video fa impressione. C'è una ferocia raggelante in quelle sneakers che scalciano un pezzo di bronzo. L'esultanza roca che si leva all'abbattimento della statua non è più sana battaglia di diritti, ma violenza ideologica. La stessa che ha preteso la rimozione da Oxford della statua di Cecil Rhodes, creatore della colonia omonima, oggi Zimbabwe; che oggi ha spinto l'Imperial College a cancellare i riferimenti all'imperium dal suo motto; che vuole sbianchettare la parola «nigger» dai libri di Mark Twain o cancellare la scritta «Dux» dagli obelischi...
Si chiama «wokeism», da «stare svegli». È l'evoluzione totalitaria del politically correct ed è pericolosa. Perché utilizza la stessa aggressiva strategia di denigrazione e gogna per chiunque non risponda ai canoni etici di purezza, proprio come nei regimi autoritari.
Dimenticando per esempio che quel mercante di schiavi fu anche un filantropo e creò ospedali, scuole e fondazioni. Il che non ne fa un santo e non cancella il dolore che provocò, ma ci fa capire come la storia non sia solo bianco e nero. E no, qui la pelle non c'entra.
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