Sono passati oltre 11 anni dall’omicidio di Sarah Scazzi scomparsa a soli 15 anni da Avetrana il primo pomeriggio del 26 agosto 2010. Il suo corpo fu ritrovato il successivo 6 ottobre in un pozzo artesiano nelle campagne intorno alla cittadina. Ad auto-accusarsi dell’omicidio fu lo zio Michele Misseri, che però ritrattò più volte, attribuendo poi l’omicidio alla figlia Sabrina Misseri. Fu proprio lei a essere condannata in terzo grado all’ergastolo insieme alla madre, Cosima Serrano, riconosciuta colpevole per concorso in omicidio. Il padre è invece in carcere per occultamento di cadavere.
Ora una docuserie in 4 puntate in onda da stasera su Sky Documentaries riapre non solo la vicenda giudiziaria, ma fa anche da sponda a una serie di interrogativi sul ruolo dei media e dei loro fruitori. "Nonostante ci siano tre sentenze siamo totalmente sicuri che il racconto mediatico non abbia in qualche modo inciso non solo sull’inchiesta ma anche sulla nostra percezione dei protagonisti e delle persone coinvolte?", spiega a ilGiornale.it Carmine Gazzanni, autore con Flavia Piccinni di "Sarah - La ragazza di Avetrana", omomino libro da cui è tratta la miniserie a cui hanno lavorato anche Matteo Billi e Christian Letruria.
Su cosa è incentrata la docuserie?
"Sulla vicenda giudiziaria, sui risvolti mediatici e sulla dimensione umana dei personaggi che ruotano attorno al caso Scazzi. Questi tre aspetti sono legati in maniera indissolubile: è impossibile scinderli se si vuole comprendere fino in fondo cos’è accaduto ad Avetrana e cosa rappresenta nel panorama anche mediatico l'omicidio. Cerchiamo, però, anche di far luce sulle ombre di un processo indiziario che, nonostante una condanna passata in giudicato, lascia diversi punti interrogativi ancora senza risposta sulla morte di Sarah. In definitiva è una docuserie che prova ad affiancare la vicenda di cronaca nera nello specifico, ma che pone degli interrogativi anche su come dal caso Scazzi in poi viene raccontata la cronaca nera. Parliamo di un racconto che, in alcuni casi, si trasforma in circo mediatico, teso più a interessarsi del morboso rispetto a ciò che realmente è utile per il raggiungimento della verità".
Qual è stato il ruolo dei media?
"Questo caso rappresenta una sorta di punto di non ritorno, come abbiamo avuto modo di sottolineare già nel libro io e Flavia Piccinni. Un punto di non ritorno perché, se da una parte già c’erano stati racconti di cronaca nera della cosiddetta ‘tv del dolore’ - penso soprattutto ad Alfredino Rampi e a Vermicino - con il caso Scazzi si fa un passo ulteriore, perché per la prima volta il 6 ottobre 2010 alla mamma di Sarah, Concetta Serrano, viene comunicato in diretta che la figlia non è scomparsa, bensì è morta. E che a uccidere la figlia sarebbe stato - secondo quello che si disse all’epoca - lo zio di Sarah, Michele Misseri. Quell’episodio è emblematico perché rappresenta un momento in cui tutto sembra diventare legittimo. Diventa legittimo concentrarsi sul morboso, diventa legittimo invadere un paese e intervistare chicchessia semplicemente per avere ‘qualcosa’ da dire nel corso delle innumerevoli dirette diventate un appuntamento fisso per la televisione italiana. Diventa legittimo spiare dal buco della serratura e raccontare fatti privati che magari nulla c’entrano con l’inchiesta per omicidio. È qualcosa a cui poi abbiamo assistito in tanti altri casi nel corso degli anni. E in questo Avetrana ha fatto scuola".
E questo può aver avuto riflessi anche sul processo?
"Il dubbio che noi ci poniamo è questo: nonostante ci sia una sentenza passata in giudicato e che va assolutamente rispettata, siamo totalmente sicuri che il racconto mediatico non abbia in qualche modo inciso non solo sull’inchiesta, ma anche sulla nostra percezione dei protagonisti e delle persone coinvolte? Questa è una domanda che dovremmo porci tutti. Per un motivo molto semplice: se ci sono racconti di cronaca nera in cui a un certo punto - com’è accaduto ad Avetrana - si spettacolarizza il dolore, scompare la vittima perché siamo interessati a comprendere i segreti di tutti gli altri protagonisti della vicenda, se ci sono casi in cui i presunti colpevoli diventano addirittura personaggi da cui travestirsi a Carnevale (come accaduto con Michele Misseri), probabilmente tutto questo nasce anche da un desiderio del telespettatore di avere quel tipo di racconto. Dunque di chi è la responsabilità? Di chi offre quel racconto o di chi lo richiede? Aggiungo un altro particolare: il fatto che la pressione mediatica a un certo punto sia diventata - caso unico - talmente incontrollata, ha reso protagonista del racconto tutta la comunità avetranese, in una sorta di giallo salentino a basso costo. E dunque, per obbedire ai canoni televisivi, occorreva avere la ragazza grassa e brutta invidiosa della cugina, la tresca amorosa, lo zio succube della moglie dipinta come una megera con i capelli bianchi e vestita sempre di nero, e così via. Di fatto le persone, che fisiologicamente sono sempre un insieme di colori e mai tutte bianche o tutte nere, sono stati tagliate con l’accetta, sono diventate personaggi da inquadrare in determinati canoni che obbedissero alle ‘logiche’ di racconto televisivo. E così il paese tutto è diventato protagonista".
Come?
"Faccio un esempio banale: in quell’anno 2010 assistiamo a due casi che sono diventati mediatici, Sarah Scazzi e Yara Gambirasio. Eppure parliamo del delitto di Sarah come del delitto di Avetrana. Il caso di Yara segue dinamiche totalmente diverse, anche per una maggiore compostezza da parte dei protagonisti, a cominciare dai genitori di Yara. Ad Avetrana, invece, tutti vengono coinvolti o si lasciano coinvolgere. Alcuni credono in quel momento di poter riuscire a gestire il circo mediatico, senza sapere che il circo mediatico li avrebbe evidentemente poi stritolati e sputati una volta che non servivano più. In sintesi Avetrana è stata una lente di ingrandimento sul cinismo dei giornalisti e degli autori televisivi, ma ancora di più sul voyeurismo macabro di noi telespettatori".
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo si potrebbe pronunciare su Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Potrebbe cambiare la narrazione della vicenda?
"Il caso potrebbe non essere chiuso. Sicuramente c’è una sentenza passata in giudicato, secondo cui Sabrina e Cosima sono colpevoli dell’omicidio e condannate all’ergastolo. Ma c’è una particolarità di questa vicenda, che anche questa rappresenta un unicum, una situazione chiasmica, per cui chi è in carcere con l’ergastolo si professa innocente e chi a breve uscirà dal carcere, ovvero Michele Misseri, si professa colpevole. Il ricorso presentato dai legali di Sabrina e Cosima ruota tutto intorno alla famosa figura del fioraio e il ricorso è stato dichiarato ammissibile. Questo significa che sarà discusso e ci potrebbero essere novità. Un particolare importante della serie è che noi, dopo 10 anni che non parlava con nessuno - e questo è sicuramente uno degli aspetti più esclusivi del documentario - siamo riusciti a intervistare il fioraio di Avetrana che offrirà un racconto che potrebbe avere dei risvolti per la comprensione del caso, al di là di come la si pensi. L’intervista al fioraio, che ha un ruolo centrale in questa storia, offre un quadro inaspettato".
Yara Gambirasio, Alfredino Rampi, Maddie McCann, Mauro Romano, Sarah Scazzi. Perché le persone sono così affascinate e preoccupate per i casi di nera che riguardano l’infanzia?
"Io credo che la cronaca nera catturi l’attenzione, al di là del racconto morboso, perché ci porta a confrontarci, specie nei casi di infanzia, con gli aspetti più negletti, più nascosti dell’animo umano. Sarah viene uccisa, al di là di come la si veda, in casa Misseri, e cioè in quella che lei considerava la sua casa, la sua famiglia. Si considerava sorella di Sabrina. Questo ci fa capire come spesso ci troviamo davanti a episodi per cui persone inaspettate che fino a un momento prima consideravamo nostri amati, confidenti, amici o parenti, sono degli orchi e si trasformano in assassini. La cronaca nera di fatto ci spinge a riflettere sul fatto che c’è una parte nascosta, oscura in alcuni casi, all’interno dell’essere umano".
Cosa resta del caso Scazzi?
"Resta soprattutto Avetrana, un paese - questa fu la prima cosa che mi colpì - che per via dell’assurdo circo mediatico è legato indissolubilmente a quel caso ancora oggi. Gli abitanti di Avetrana, consapevoli di quello che è significato il caso Scazzi, sono molto più cauti nel rilasciare interviste. I giornalisti e i media in generale vengono guardati con sospetto e molta diffidenza dopo quello che è avvenuto 10 anni fa. Io credo però che, quando si affrontano questi casi, bisogna passare dal particolare all’universale: comprendere quello che il caso Scazzi può insegnare. Innanzitutto dal punto di vista del racconto mediatico. Ad Avetrana è successo qualcosa che difficilmente poi si è ripetuto: una sorta di tifoseria da stadio, secondo le persone per cui si parteggiava. La scena che rimane emblematica è l’arresto di Cosima, con le persone che inveivano, le sputavano contro, le buttavano addosso qualsiasi cosa. Una delle più brutte pagine del giornalismo e del telegiornalismo italiano.
Quella scena è l’apice di ciò che voglia dire un racconto interessato al morboso che supera ogni deontologia, distrugge ogni codice deontologico nella ricerca spesso del facile share, della curiosità inutile. Il caso di Sarah Scazzi ha segnato profondamente l’immaginario collettivo anche - purtroppo - per questo motivo".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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