nostro inviato a Catania
«Tremavo. Tremavo tutto. Credo che anche la mano andasse per conto suo. Poi, finalmente, li vidi uscire. Prima Nilde Iotti, dietro lui. Scese i gradini, arrivò a tre-quattro metri di distanza da me. Cominciai a sparare: uno, due, tre colpi. Continuai a fare fuoco mentre cadeva per terra. Lei si chinò su di lui gridando: hanno ucciso Togliatti, hanno ucciso Togliatti...».
L'uomo che premette il grilletto quel mercoledi 14 luglio 1948 parla per ore con una precisione sbalorditiva. Sono passati quasi settant'anni da quelle ore che trascinarono l'Italia sull'orlo della guerra civile, ma Antonio Pallante snocciola nomi, numeri, date come fossero passati pochi giorni.
É un caso a suo modo bizzarro: un capitolo di storia che per un giorno fa il cammino a ritroso verso la cronaca. Parole. Facce. Espressioni. Siamo in un salotto borghese un po' datato di Catania. Pallante aveva fatto molti anni fa una sorta di voto, come un monaco trappista. Silenzio e ancora silenzio in attesa che calasse il sipario. E invece il figlio Carmine, chimico, oggi nel settore del terziariom e vice presidente di Manageritalia Palermo, lo ha convinto a riaprire quella porta, ormai sprangata. Antonio porta abbastanza bene i quasi novantacinque anni anagrafici: il suo punto debole sono le gambe che lo hanno tradito, ma la parola corre rapida e chirurgica, le mani, sempre in movimento, esprimono quel che i concetti non riescono a trasmettere per la troppa foga, gli occhi, chiarissimi, sono velati da una malinconia lattiginosa, rotta via via da lampi di intelligenza e sorrisi colmi di ironia.
Signor Pallante, prima di quel giorno fatidico, anniversario della presa della Bastiglia, aveva già sparato?
«Avevo messo in crisi il Fascismo con un colpo di moschetto e prima ancora mi ero ribellato all'autorità centrando con una pedata il rettore del seminario».
Un attimo, lei è un prete mancato?
«Papà, che era un brigadiere forestale, si era messo in testa che io diventassi sacerdote. Rimasi cinque anni nel seminario di Cassano allo Ionio, in Calabria. Poi il diavolo ci mise del suo».
Perchè?
Pallante, aggrappato a una sedia imbottita di cuscini, ride di gusto: «Sentivo voci angeliche, femminili, di là del muro che chiudeva il cortile. Era estate, faceva caldo, indugiavo all'aria aperta e tendevo l'orecchio. Di là della muraglia c'era una colonia: ragazze che facevano, come si diceva allora, l'elioterapia. Colpo di fortuna, mi accorsi che un mattone veniva via con grande facilità. Ecco, un bel buco nella recinzione».
Come in certi film noir francesi.
«Io ne approfittai per sbirciare dall'altra parte. Ero un ragazzo curioso, di 13-14 anni. Solo che qualcuno fece la spia e il rettore, infuriato, mi chiamo...».
Risultato?
«Lui urlava e allora gli mollai un calcio negli stinchi. Fui espulso e rispedito a casa, per la disperazione di mio padre».
Fine della vocazione?
«Si, ma non degli studi, anche se spesso cambiavamo residenza seguendo papà nei suoi spostamenti di forestale. Presi la licenzia ginnasiale a Castrovillari, poi la maturità classica in Sicilia al prestigioso collegio Capizzi di Bronte, quindi mi iscrissi a giurisprudenza a Catania».
Ma l'incidente con il fascismo?
«Successe nell'estate del 43, con gli Alleati ormai alle porte, a Bronte, in Sicilia. Io e i miei amici avevamo fra le mani il moschetto datoci dal Regime. Rubai un caricatore a papà. Eravamo in tre: ci piazzammo fra due pali della luce. Io fui l'ultimo a provare. Il colpo spezzò il filo. Pensavo che al massimo ci sarebbe stato un black out, invece l'avevo combinata grossa: avevo interrotto le comunicazioni fra Roma e Bengasi, fra Mussolini e Graziani, fra l'Italia e la Libia».
Che successe?
«Ci fu un vorticoso giro di telefonate fra Bronte, Catania e Roma. Ricerche a tappeto contro i presunti sabotatori, polizia e carabinieri impegnati allo spasimo sul campo. Alla fine fui rintracciato e il federale di Bronte si scaraventò dal direttore delle poste con una voluminosa documentazione. Questa - disse - deve partire domattina per Roma».
Una catastrofe.
«Chissà cosa sarebbe successo, mi avrebbero indagato, arrestato, forse sarei sparito. Ma il direttore delle poste era amico di papà, ritenendo l'episodio una bravata di gioventù, concertò una soluzione all'italiana, la busta con le prove della mia colpevolezza non partì mai per la capitale».
Insomma, si salvò per un pelo?
«Si, ma dopo pochi giorni gli Alleati sbarcano in Sicilia. E arrivano anche a Bronte».
Immagino la sua felicità.
«No, non immagina. Il comandante Poletti, un colonnello, vuole conoscere l'eroe italiano che ha mostrato cosi tanto coraggio contro il fascismo. Cosi mi portano da Poletti che mi grida bravo italiano, mi stringe la mano e mi regala 1000 lire. Una cifra favolosa. Un tesoro per l'epoca. Con quei soldi mi pagai gli studi».
Arriviamo al Dopoguerra.
«Io ero un liberale, ero corrispondente per il settimanale siciliano dell'Uomo qualunque, il Giornale dell'isola, ormai ero uno studente fuoricorso. E mi scontravo quotidianamente con i comunisti. Minacciavano, ingiuriavano, profanavano. Ricordo i comunisti di Adrano, un paese del Catanese. Puntarono mia sorella Concettina, che oggi ha 82 anni, con parole spaventose: l'appenderemo a un palo e la violenteremo'. Poi ci fu un altro episodio».
Che cosa accadde?
«Nel corso di un comizio, un certo Proietti sbottò interrompendomi: Ma che dice questo cretino?. Mio padre, che era di fianco, lo mandò ko con un ceffone. Questo era il clima nel '48».
Cosi?
«Nel giro di due o tre mesi elaborai l'idea. Tagliare alla radice il problema. Uccidere il Migliore, Palmiro Togliatti».
Possibile?
«Feci tutto da solo, anche se poi mi hanno cucito addosso complotti, mandanti, trame misteriose. Persino la proprietà di una fabbrica di corde in Argentina».
Liberale, ma fino a un certo punto.
«Ero giovane. Ero esasperato. Ritenevo i comunisti responsabili della morte di molti italiani, eliminati dai partigiani rossi. In quei giorni, l'Italia era a un bivio drammatico: l'ingresso nell'Alleanza Atlantica o l'approdo nel Cominform».
Lei davvero pensava di risolvere il problema uccidendo il capo del Pci?
«Si. E non mi preoccupavo delle conseguenze personali. Comprai la pistola, una Smith calibro 38, al mercato nero per 250 lire. Poi per 25 lire acquistai in armeria cinque proiettili. Dissi che mi servivano per il tirassegno. Infine partii per Roma».
Come organizzò l'agguato?
«Decisi di colpire a Montecitorio. Operazione non facile: all'ingresso fui bloccato. Mi serviva un pass».
Chi glielo diede?
«Mi ricordai dell'onorevole Francesco Turnaturi, catanese di Randazzo, democristiano, che avevo conosciuto fra un comizio e l'altro. Lui mi fece trovare tre pass».
Ma voleva ammazzare Togliatti dentro Montecitorio?
«Non avevo un piano preciso. Dunque, dalla tribuna lo vidi: vidi lui, vidi Pajetta, il numero due del partito, vidi anche tanti altri, compreso De Gasperi che però non mi interessava. All'improvviso Togliatti usci, bruciandomi sul tempo. Mi accorsi però che se n'era andato da una porticina laterale che dava su via della Missione. Il terzo giorno mi appostai fuori».
Erano le 11.40 del 14 luglio, ricorrenza della Bastiglia.
«Una coincidenza casuale. Tremavo. Forse mi tremava anche la mano. Sapevo di avere cinque colpi a disposizione, ero determinato, ormai avevo deciso».
Alle 11.40 la porticina si apre: esce la Iotti e dietro di lei il Migliore.
«Scorgo lei, poi lui. Sono sui gradini, io a tre- quattro metri. Sparo: lo prendo alla costola, poi al polmone. Lui cade e mentre si accascia sparo ancora. Un colpo a vuoto, il quarto entra nella nuca. La Iotti si butta su di lui e grida: hnno ucciso Togliatti, hanno ucciso Togliatti, i deputati cominciano a uscire a frotte dal Parlamento, io non capisco più niente. Mani forti mi afferrano salvandomi dal sicuro linciaggio: è il capitano dei carabinieri Antonio Perenze che poi firmerà la relazione sulla morte, misteriosissima e controversa, del bandito Giuliano».
Ma quella è un' altra storia.
«Sono su una jeep che parte subito. Pochi minuti e arrivo in questura dove Ippolito, il questore, è pronto a interrogarmi. Non mi viene torto un capello, mi trattano tutti con gentilezza, solo il questore fa il furbo e nel verbale mi fa dire: Ho voluto vendicare la morte di molti fascisti. Dai Pallante che c'è un caldo che ci squagliamo, firma che andiamo. Eh no, signor questore, replico, io ho detto che volevo vendicare gli italiani uccisi, non i fascisti,ma è la stessa cosa. No, allora non firmo. Finalmente cambia la frase. Metto l'autografo, mi trasferiscono a Regina Coeli».
Il suo ingresso?
«Appena arrivo alla rotonda, parte un coro: A morte Pallante, Pallante figlio di p.... Subito si alzano voci contrarie: Viva Pallante, grande Pallante. Il direttore capisce al volo: Dategli la stanza del cappellano, al quarto piano».
Intanto il Migliore, che non è morto, operato d'urgenza si salverà.
«Si, io vengo informato e capisco. Il quarto proiettile esploso, l'ultimo perchè il quinto è rimasto nella pistola - anche se al processo la Iotti affermerà il falso sostenendo che mi ero accanito su Togliatti ormai a terra - non è penetrato dentro la testa, ma si è fermato in superficie».
Come mai?
«La verità salterà fuori dalle perizie balistiche: le pallottole andavano bene per il tirassegno. Erano molli, non erano rivestite di antimonio. Questa, oltre all'abilità del chirurgo, il professor Valdoni, è la ragione per cui Togliatti sopravvisse».
Lui si, ma l'Italia in quelle ore rischia di saltare in aria: scioperi, tafferugli, scontri, feriti,una vera e propria rivolta sul monte Amiata, un carabiniere fatto a pezzi. Si aspettava qualcosa del genere?
«Io mi sentivo come un patriota, avevo fatto la mia parte, avevo neutralizzato il nemico degli italiani. Il resto non mi competeva».
Anche se tutto quello che accadde in quelle ore è raccontato nei ritagli di giornale che compongono gli album ammonticchiati sul tavolo. Ogni tanto, il vegliardo li sfoglia alla ricerca di un dettaglio e li mostra in quel salotto immobile e sospeso nel tempo ai familiari raccolti per ascoltare quel racconto mai sentito: il figlio Carmine, la nuora Maria Luisa, i nipoti Antonio e Francesco, studenti di medicina. La badante, Adela, rumena, è l'unica cui nel tempo,giorno per giorno, ha già confidato la sua lunghissima confessione.
Pallante rialza la testa da quel mare di fogli: «Pensi che Stalin il giorno dopo diede una direttiva molto chiara: Eliminare l'aggressore di Togliatti con 4 colpi. Gli stessi che io avevo esploso».
Per lei si metteva male?
«Una mattina sono dal barbiere e lui, rivolgendosi alla guardia che mi aveva accompagnato, esclama: Se avessi fra le mani Pallante, gli taglierei la testa con questo rasoio. Io impallidisco, la guardia capisce, mi fa l'occhiolino e gli urla: Dai, finisci, che questo deve tornare in cella. Mi è andata bene».
Anche perchè nelle 48 ore successive al' attentato Bartali va a conquistare la maglia gialla al Tour e riceve la famosa telefonata di De Gasperi: Solo tu puoi salvare l'Italia.
«Gli italiani si infiammano in fretta, ma è fuoco di paglia».
Ha mai incontrato Bartali?
«Me lo propose vent'anni fa Maurizio Costanzo,ma rifiutai. Non mi presto alle pagliacciate».
Il processo?
«Mi difendeva Giuseppe Bucciante, un principe del foro che non mi ha mai chiesto una lira. Lui cercò una soluzione con i legali di Togliatti ma il Migliore non ne volle sapere: venne in aula e puntò il dito contro di me. Mi diedero 19 anni. In appello la pena fu ridotta a 13, la Cassazione la dimezzò a 6. Dopo 5 anni ero fuori».
Un finale all'italiana.
«Iniziai una nuova vita in Regione e come amministratore di condomini. Un giorno a Catania incontrai Scelba che mi disse: Quanti guai mi hai fatto passare. Ma la più grande soddisfazione fu un' altra».
Quale?
«Quando ancora ero in carcere, non più a Roma ma a Noto, dall'Argentina arrivarono un sacco di soldi. Me li mandava Evita Peron.
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