Lo spread (di voti) che fa tremare M5s

Quel partito social(ista) ​che affonda nelle città

Lo spread (di voti) che fa tremare M5s

C'è uno spread che crea qualche problema ai grillini. E non è l'odioso spread tra i tassi italiani e quelli tedeschi che da almeno sette anni perseguita tutti noi con ciclica ossessione. È lo spread - il differenziale appunto - tra il successo clamoroso che i grillini incassano alle elezioni politiche e poi - tre mesi, non tre anni dopo - le briciole che raccattano alle Comunali. Come fa un partito a prendere il 32% delle preferenze il 4 marzo e poi rimanere fuori il 10 di giugno da tutti i principali ballottaggi, racimolando, per esempio, un misero 6 per cento a Brescia. Beh, i Cinque Stelle non sono mai stati particolarmente forti al Nord ed ora ancora meno, considerato lo strapotere della Lega, obietterà qualcuno. Verissimo. Ma pure al Sud, dove allo scorso giro con la falce del reddito di cittadinanza hanno mietuto milioni di voti, la raccolta è andata piuttosto male. Per non parlare dell'effetto Raggi nei Comuni attorno alla capitale. E poi, a essere sinceri, Luigi Di Maio nella campagna elettorale porta a porta è empatico come un server della Casaleggio Associati. Fuori competizione con il suo omologo (anzi alter ego, come direbbe lui) Matteo Salvini, indomabile animale da campagna elettorale. Ci sono tutti questi fattori, senza dubbio. Ma la verità è che il Movimento 5 Stelle è il figlio di una idea autopartorita di soggetto politico leggero, liquido, impalpabile ma onnipresente. Il web per loro non è solo uno strumento, ma anche e soprattutto una filosofia. Sono come la rete wi-fi: ovunque, anche se non la si vede. Così, molto spesso, nei Comuni medi o piccoli, i pentastellati sono un'idea alla quale nessuno riesce ad appiccicare un volto. La stessa dinamica della concessione del simbolo alle liste locali - come un qualunque franchising di gelati - è spersonalizzante. Nell'era dei social network i grillini hanno modellato il loro movimento sulle reti sociali. Sono senza dubbio social-isti in questo senso. Non ti chiedono il voto, ma un meno impegnativo like. Come se le consultazioni fossero un qualunque post su Facebook. E le elezioni dello scorso marzo loro le hanno vissute - e trasformate - come in una gigantesca raccolta di «mi piace» per il loro post elettorale. Un sondaggione collettivo pro o contro le élite. Come in quelle storie su Instagram nelle quali sei invitato a rispondere sì o no alla domanda di un utente. E hanno vinto, sono andati fortissimo. Ma poi devi fare i conti con la realtà e col territorio. I social network ti aiutano - se li sai usare bene, e loro lo sanno fare benissimo - ma solo nella pesca a strascico. Così abbiamo scoperto che agli italiani piacciono i grillini, ma non li vogliono come loro vicini prossimi. Li spediscono a Roma a combattere contro i poteri forti ma per le beghe piccole preferiscono tenerli alla larga e rivolgersi ad altri.

Magari a chi fa quel mestiere ormai impronunciabile, cioè il politico, da una vita e attacca ancora i volantini col secchio e il pennello. Perché la politica non è esattamente un social network e così i grillini, a queste elezioni, hanno raccolto un'opzione che - almeno per ora - Facebook non ha: il pulsante «non mi piace».

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