L'inglese Roger Scruton, il polacco Ryszard Legutko, ex ministro dell'Istruzione e responsabile culturale di Solidarnosc, il medievista francese Rémi Brague, il filosofo tedesco Robert Spaemann, Roman Joch, direttore dell'Obcansky Institut di Praga, e molti altri ancora, hanno firmato un Manifesto intellettuale (A Europe we can believe in) «per salvare l'Europa dalla distruzione culturale». Un fronte conservatore che si schiera contro la «falsa Europa dei progressisti».
LEGUTKO «Negli ultimi due decenni ci sono stati tentativi per darle una nuova identità, per crearla da zero e rendere tutto moderno, tollerante, multiculturale. Ma questo lo chiamo lavaggio del cervello. D'altra parte, basta confrontare le personalità di Robert Schumann e Alcide De Gasperi con quelle di Jean-Claude Juncker e Martin Schulz per vedere immediatamente la differenza tra la vera e la falsa Europa».
SCRUTON «Ci viene presentata un'idea dell'Europa come comunità multiculturale, senza un'identità religiosa ereditaria, governata secondo procedure burocratiche che non fanno riferimento a un retaggio spirituale o culturale. Questa falsa Europa fa parte di un'economia globalizzata, in cui le frontiere e le nazioni sono pronte a dissolversi di fronte alle ondate di migranti. La sua moralità si esaurisce nel perseguimento dogmatico dei diritti umani, che includono tutti i diritti necessari a uno stile di vita liberale (a esempio, il diritto all'aborto) ma non quelli che la sorreggono e che invece vengono ostacolati (a esempio, i diritti del nascituro)».
Dichiarate l'impraticabilità del multiculturalismo.
L. «Non si può avere una società in cui nulla unisce i suoi membri. La Cecoslovacchia si è separata e divisa in due Stati. La Jugoslavia, dopo una guerra sanguinosa, è scomparsa ed è stata sostituita da vari Stati. In Belgio e in Spagna ci sono forti movimenti separatisti. Se questo accade nelle società che hanno una lunga storia di comunità, come possiamo pensare che una società artificialmente creata come quella multiculturale possa sopravvivere?».
S. «Una cultura è il fondamento della fiducia sociale; quella cosa che condividiamo con gli sconosciuti. Crea un gruppo che può difendersi dalla spoliazione di identità. Quando invece ci sono molte culture e non una cultura civile onnicomprensiva che li includa, allora lì c'è la ricetta per il conflitto. Ed è quello che nel mio Paese si vede rispetto allo sfruttamento di ragazze indifese da parte di immigrati musulmani: le ragazze non appartengono alla nostra cultura e possono essere violentate e mercanteggiate».
Avete scritto che la Russia o l'immigrazione musulmana non sono un pericolo.
L. «Lo sono! Il principale pericolo è però il declino dell'anima europea. Questa debolezza l'abbiamo notata diverse volte negli ultimi cento anni. Per esempio, prima di ogni guerra mondiale. Ogni volta la diagnosi era corretta, ma poi l'Europa, paralizzata dai dubbi, cadeva preda della propria fiacchezza interna. Oggi avvertiamo gli stessi sintomi».
Immaginate Stati nazionali in una Europa cosmopolita tenuta insieme dalla fede cristiana e dalla difesa delle tradizioni di lealtà civica.
L. «La lealtà civica o spirito di cittadinanza è virtù che può essere praticata solo all'interno di una comunità politica, cioè all'interno degli Stati-nazione. Immaginarla in una società anonima, transnazionale, alimentata da un'ideologia arida e priva di ogni esperienza storica, porterebbe alla dissoluzione. A tenere insieme tutto non dovrebbe però essere solo il cristianesimo ma anche la cultura greca e romana, la grande arte e la filosofia che ci hanno distinti da qualsiasi altra civiltà. Oggi siamo diventati troppo pigri per afferrare seriamente tutto questo e ci accontentiamo delle falsità e delle banalità dell'Ue».
S. «Magari fosse subito possibile. Ma la fede cristiana si sta indebolendo e non viene riconosciuta in nessuno dei pronunciamenti ufficiali della classe dirigente europea, la cui visione del mondo è ostinatamente secolare, individualista e senza una chiara dimensione spirituale. Ormai, difendere lo Stato-nazione porta diretti all'accusa di razzismo e xenofobia, che nel lungo elenco dei peccati mortali moderni rappresentano il peggio».
E sarebbe realizzabile la vostra idea di un liberismo connesso agli Stati nazionali?
S. «Lo Stato nazionale è proprio ciò che lo rende possibile: definisce una fedeltà condivisa a un luogo, a una storia, a una lingua e a una rete di legami locali. Solo su questa base, la gente si fiderebbe l'uno dell'altro tanto da permettere quelle libertà che altrimenti potrebbero sembrare minacciose».
L. «Io penso alla libertà concreta, e non alle teorie di Locke, Mill e Rawls che ritengo profondamente insoddisfacenti. E quella libertà è in pericolo perché sta emergendo un sistema di divieti e tabù che grazie alle moderne legislazioni punisce ogni banale violazione. In Canada puniscono persino l'uso politico dei pronomi».
Mettete all'indice le false libertà del '68 da cui tutto sarebbe partito.
L. «Nel 1968 abbiamo assistito all'invasione dei barbari nelle università diventate agenzie con lo scopo di cambiare il mondo. Professori e studenti diventati attivisti politici per proclamare che è politicamente ammissibile solo ciò che serve la causa del progresso. Il risultato è che il moderno europeo è de-culturato e sempre più indottrinato. E infatti il politically correct può esistere solo nelle società che subiscono un processo di de-culturazione».
S. «La libertà di indulgere verso qualunque brama, di appagare qualsiasi appetito, compreso ogni tipo di esperimento sessuale, ogni droga, di sfidare ogni convenzione, consuetudine o autorità che viene contestata e messa a tacere. Questo è successo».
Se vi dicono che il populismo dice più o meno le stesse cose?
S. «Populismo è una parola fuorviante. L'appello diretto al popolo è una cosa pericolosa, anche se a volte necessaria, ed è un disastro un'azione di governo indirizzata dai social media. Ma se si intende il governo di chi vuole prendere in seria considerazione le esigenze dell'elettorato e cerca di fare quello che viene chiesto, allora può essere uno degli elementi necessari per un governo responsabile».
L. «Non ho opinioni sul populismo, perché non so cosa significhi questa nozione. So che viene usato contro ogni persona, ogni movimento e ogni idea che si discosta dal mainstream politico.
Accadeva la stessa cosa durante i miei anni giovanili sotto il comunismo, quando quelli che avevano una diversa opinione erano accusati di revisionismo e denigrati senza nemmeno la possibilità di esporre le proprie ragioni».
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