Cè qualcosa di nuovo nella politica italiana? Non sembra proprio. Dopo meno di un anno di governo dell'Unione, tutto appare bloccato e lo stesso dibattito pubblico si è concentrato sugli argomenti di sempre. Ce lo ha confermato ancora ieri Franco Marini, in una lunga intervista con la quale ha sollecitato la nascita del Partito democratico, affidandogli un ruolo salvifico. Di fronte ai cambiamenti della società, «ci sarà bisogno di scelte fuori dall'ordinario», ha osservato il presidente del Senato, dando così per scontato che l'attuale maggioranza, di cui è uno dei massimi leader, è inadeguata.
Come dire che il presente non conta, che resta solo da scommettere sul futuro, sull'illusione che una nuova legge elettorale e un soggetto politico di cui si discute da un'eternità possano spianare la strada a nuove alleanze e a un nuovo sistema. Naturalmente Marini non ha speso una parola chiara per lasciar capire a quali scelte concrete pensa né di programma né di schieramento. Ha evitato di lasciarsi sfuggire la formula del «grande centro». Si è limitato a lasciar capire la sua sofferenza per il viaggio che compie con l'estrema sinistra e per i limiti dell'azione dell'esecutivo. Nulla di più.
Ha dato comunque l'ennesima testimonianza del vuoto che si è aperto in uno dei due schieramenti del bipolarismo italiano e della crisi più generale che questo vuoto ha aperto. Non c'è, nel centrosinistra, una sola idea nuova, ci sono solo idee confuse e quel poco che è scritto sull'agenda dell'Unione è vecchio come il cucco.
Ricapitoliamo. Romano Prodi ha assunto in prima persona la tessitura della riforma della legge elettorale. Ha certamente le sue preferenze, ma finora appare solo che egli s'è impegnato unicamente nel tentativo di verificare le possibilità di un accordo. Non c'è una proposta chiara. C'è sempre l'eterno conflitto - iniziato quasi vent'anni fa - tra una proposta referendaria e la reazione di chi vuole evitarlo. Ma, su tutto l'Unione ci ha portato in un viaggio nel passato. Ad essere generosi, viviamo oggi quel che abbiamo già vissuto nel 1990, se dobbiamo parlare dell'aggiornamento di una Carta costituzionale che appare come minimo «invecchiata» anche a coloro che la considerano un tabù, se si discute della «questione fiscale» o della riforma della previdenza che ricorda la parabola della lepre che insegue la tartaruga. E la politica estera? È da Desert storm - appunto, tra il 1990 e il '91 - che è aperta la contraddizione tra una visione internazionalista e una neo-neutralista. Quando poi si apre il dossier dei «diritti», quello tanto caro alla nuova sinistra, si viene addirittura trascinati ai tempi di Porta Pia.
È successo che non solo uomini o partiti, ma culture ancora immerse negli schemi del Novecento, si sono blindate nei Palazzi. La controriforma, decisa per cancellare il quinquennio della Casa delle libertà, ha avuto l'effetto di proiettare l'Italia e il dibattito pubblico in un lontano passato. Il futuro è affidato a giochi di formule e di schemi, come il Partito democratico. Il Partito democratico, di cui si cominciò a parlare già con l'inizio della crisi del vecchio Pci (anni 80), data a cui risale l'antinomia con l'opzione socialista. Quello fra tradizionalismo e innovazione è ormai un dibattito avvolto dalle ragnatele.
La palude italiana sta tutta qui: nell'obsolescenza della cultura politica che si è impadronita del governo del Paese, nella cancellazione dall'agenda dei problemi della modernità e nella rinuncia a prenderne atto sul piano politico da parte di chi in qualche modo se ne è accorto, penso appunto a quel che ha detto Franco Marini.
Renzo Foa
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