Prima contro i partiti, poi dentro i partiti. Così cambia l'antipolitica

All'inizio era solo di destra e si opponeva, da fuori, al Palazzo Poi diventa di sinistra. E col M5S partecipa alla cosa pubblica

Prima contro i partiti, poi dentro i partiti. Così cambia l'antipolitica

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un estratto del saggio L'antipolitica in Italia. Un tentativo di concettualizzazione del professore Roberto Chiarini che apre il nuovo numero della rivista Nuova Storia Contemporanea diretta da Francesco Perfetti in libreria da oggi (Le Lettere, pagg. 168, euro 12).

Ogni democrazia ha dovuto fare i conti con una parte dell'opinione pubblica contraria a un coinvolgimento nelle istituzioni. Si parte con le difficoltà incontrate, ancor prima che a gestire, a capire la complessità della politica. Si continua con la fatica che un'attivazione partecipativa comporta. Si termina con la contestazione della legittimità stessa dell'esercizio della sovranità popolare.

Puntualmente tutte queste declinazioni dell'antipolitica si ritrovano nel caso italiano in tutta la storia nazionale, anche se ovviamente dotate di una rilevanza differente a seconda delle varie congiunture politiche. Di massima si può comunque affermare che il rilievo assunto da alcune sue espressioni abbiano raggiunto, comparativamente alle altre democrazie occidentali, livelli da primato. L'antipolitica ha conquistato, comunque, la scena in Italia e, più o meno, in quasi tutte le democrazie occidentali solo negli ultimi decenni. A lungo l'antipolitica si è alimentata prevalentemente dalla protesta contro una politica o troppo partigiana o troppo inefficace o troppo sorda alle invocazioni venute dai ceti in sofferenza, da parte degli interessi locali o settoriali in affanno. Col tempo si è rivolta, invece, contro la troppa politica, una politica non solo ingombrante ma anche invalidante della società civile.

Finché dura la Prima repubblica, il tratto distintivo tra politica e antipolitica è la difesa o meno della terna parlamentarismo-proporzionalismo-partitismo. A nulla servono, il riscontro dell'invadenza crescente dei partiti nell'apparato dello Stato o il reiterarsi di scandali che vedono i partiti di governo colti sul fatto nel momento di accaparrarsi risorse pubbliche o di procurarsi finanziamenti illeciti. È lo scandalo di Tangentopoli a chiudere con un botto fragoroso una parabola declinante dei partiti da tempo in crisi di credibilità. In quel momento la critica alla partitocrazia che per mezzo secolo è stata appannaggio quasi unicamente del Msi e della stampa di destra (da Guareschi a Montanelli) fa breccia nell'opinione pubblica e nei media innestando una spirale che si auto-alimenta allargandosi vertiginosamente.

L'antipolitica si popolarizza conquistando d'autorità la scena politica nazionale. Riemerge dal confino in cui dal 1947 era stata relegata. Da mass level , risale a élite level , da qualunquistica si fa democratica. La grande stampa (da Il Corriere della sera a Il Giornale ), inusitatamente concorde senza distinzioni di proprietà o orientamento politico, nonché la tv, sia pubblica che privata (da Samarcanda e Il rosso e il nero di Michele Santoro o Retequattro con Funari news ) conquistano nuova audience e quasi «un'identità» brandendo la «questione morale». L'antipolitica dilaga. Esonda dall'argine della destra e invade redazioni, talk show, salotti, santuari del politicamente corretto. Si assiste a un vero e proprio ribaltamento nella considerazione del ruolo storico assolto dai partiti nella vita della Repubblica. La svolta si consuma nei primi anni '90 quando il movimento referendario di Segni sdogana una battaglia sino allora monopolizzata dalla destra, facendo irrompere sul palcoscenico politico la protesta antipartito.

L'imprenditore politico che pionieristicamente avanza un'offerta capace di intercettare la domanda antipolitica ormai dilagante negli anni '80 è la Lega lombarda. Quella della Lega è un'antipolitica, non ipo, ma iper-politica. Non decreta il bando, ma il rientro in grande stile della politica. Boccia «Roma ladrona» ma incorona la Padania industriosa. Invoca le manette per i partiti tutti, tanto di governo quanto di opposizione, ma allestisce l'ultimo partito di massa della storia repubblicana: insediato nel territorio e forte di una militanza di cui s'era persa memoria. La novità degli anni '90 è che si profila «una vasta area di cittadinanza competente» portatrice di una nuova declinazione dell'antipolitica, non più caratterizzata dalla «contestazione dell'autorità», ma dalla critica verso le modalità con cui essa in concreto viene esercitata. La lotta alla partitocrazia diventa la parola d'ordine anche a sinistra. Ma quel che impressiona maggiormente è che le stelle del nuovo firmamento politico sorgono in nome di questa battaglia. È il caso di Antonio Di Pietro. Ma anche le nuove formazioni, per lo più movimentiste, che sul finire del secolo agitano il mondo di sinistra, come i girotondini, il Popolo Viola o la stessa Rete di Leoluca Orlando, fanno del rifiuto delle forme consolidate della democrazia rappresentativa.

L'antipolitica domina incontrastata il campo, a destra e a sinistra. Con una differenza significativa. Mentre quella destrorsa viene bollata come populista o plebiscitaria, l'antipolitica «progressista» si mette al riparo dalla delegittimazione auto-qualificandosi «positiva», non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenklatura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica».

Da ultimo, l'antipolitica trova una sua nuova espressione nel Movimento 5 Stelle. L'attacco al «sistema dei partiti» risulta ancor più penetrante per le dimensioni inusitate del seguito elettorale raccolto il M5S e per la radicalità delle sue posizioni. Esercita un'antipolitica passiva nel senso che oppone al sistema dei partiti una sorda resistenza, chiamandosi fuori da ogni possibile interlocuzione con qualsiasi forza politica e anche da qualsiasi responsabilità istituzionale.

Interpreta un'antipolitica attiva, in quanto si fa proponente di una forma di democrazia diretta tutta nuova, centrata sulla partecipazione attiva dei cittadini via web, postulando con ciò che «l'uomo qualunque» non debba estraniarsi dalla politica ma diventarne addirittura il protagonista assoluto.

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