Così Irène Némirosvky sottrasse Cechov alla propaganda rossa

Cechov è leggero. Non superficiale, ma leggero, volatile, onnipresente. Tolstoj è il fuoco delle passioni che divorano tutto e tutti, compreso chi, come lui, a un certo punto volle metter loro la mordacchia; Dostoevskij è la terra concimata dal sangue del delitto e dal dolore del castigo, terra grassa o secca; Gogol' è l'acqua che scivola via, sì, ma nel farlo tutto pervade e a tutto regala la vita, persino alle anime morte. Cechov invece è l'aria: l'umorismo sottile che gli piaceva gustare nei gelidi inverni moscoviti o pietroburghesi, osservando ogni persona e trasformandola in personaggio, lo stato gassoso e instabile dei sentimenti che soffia nei suoi lavori teatrali, le molecole diffuse che respiriamo senza accorgercene nella sua opera. Forse anche per questo su Cechov i biografi si sono esercitati poco. Sophie Laffitte, Vittorio Strada, Henry Troyat i maggiori: nomi grossi e sostanziosi ma forse troppo istituzionali, troppo di fuoco, di terra e di acqua, troppo attenti ai fatti materiali.
Per scandagliare la vita di Anton Pavlovic serve l'aria, l'assenza di peso e la levità femminea. Serve, soprattutto, una penna amorevole e materna. Irène Némirovsky fa al caso nostro: lei ci suona la sua suite russa, sulle note di una musica che lo culla e ci culla, lei lo invita al ballo prendendolo dolcemente per mano e guidandolo in piroette e abbracci. Finalmente anche per i lettori italiani. Uscita nel '46 da Albin Michel, poi ripubblicata nel '57 e nell'89, La vita di Cechov esce ora da Castelvecchi (pagg. 188, euro 17,50, traduzione di Monica Capuani; in libreria dal 30 ottobre). Ed eccolo lì, il bambinello che si camuffa da mendicante e spilla tre copechi allo zio Mitrofan; eccolo lì lo studente del ginnasio che piace tanto alle signorine ma che si accontenta di sedurle per poi lasciarle con un palmo di nasino all'in su; eccolo lì lo studente di medicina colpito dal morbo della scrittura per un corrispettivo di otto copechi a riga, 4-5 rubli a racconto; eccolo lì il venerato maestro intimorito e ferito dai graffi del leone di Jasnaja Poljana; eccolo lì l'autore che, in platea, soffre per il flop di Ivanov e di Il gabbiano e poi gode per il ravvedimento di un pubblico distratto; eccolo lì il dottore di campagna che si alza nel cuore della notte per soccorrere un contadino e poche ore dopo va a passeggiare con i suoi cani bassotti Bromuro e Chinino; eccolo lì il malato che sputa sangue ma con il sorriso sulle labbra per non dar preoccupazioni ai suoi genitori e ai suoi fratelli; eccolo lì, il viaggiatore che fa visita ai reclusi sull'isola di Sachalin; eccolo lì, con la sua figura elegante ed eterea, confessare di voler essere innamorato sul serio, ma di non riuscirci, né con Vera Kommisarzevskaja, né con Olga Knipper, le due attrici che si calarono nella parte di sue donne (la seconda addirittura sposandolo, pressoché in incognito, il 25 maggio 1901).
Eccolo lì, infine, morire stoicamente, anzi socraticamente. «Dobbiamo un gallo a Esculapio», disse colui che sapeva di non sapere nella sapientissima antica Atene, volendo consolare gli allievi per la sua dipartita da interpretarsi come una guarigione. «È tanto che non bevo champagne», disse da parte sua Anton Pavlovic accettando la coppa che Olga gli porse, il 15 luglio 1905. In extremis una carezza per la sua signora, in extremis il rimpianto per non essersela goduta come meritava. Quanto tempo era passato dai giochi con Aleksandr, Nicolaj, Ivan, Marija, Michail, e dalle botte di papà, e dalle rimostranze dei capiredattori delle riviste («Questa, un'opera? Ma è più corta del naso di un passero!»), e dall'amicizia con il reazionario Suvorin, il padrone della Novoe Vremja. Quanto tempo era passato da quando, dice la Némirovsky, «il fardello del talento» si era abbattuto su di lui...
No, non se la godette, Anton Pavlovic, la vita, nonostante Vienna, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Nizza, Parigi, nonostante una fama che giunse con ritardo, ma giunse, nonostante le lacrime versate dal severo e ferreo Gor'kij durante una rappresentazione di Zio Vanja, nonostante le parentesi di idillio agreste e di attivismo cittadino. La sua commossa biografa ce lo spiega con la partecipazione di un'amica lontana, di un'ammiratrice discreta e rispettosa dei suoi silenzi enigmatici. E quando lei, che conobbe la violenza ottusa del nazismo e ne morì, commenta la pretesa dell'Urss arrogante e totalitaria di appropriarsi delle spoglie letterarie di Cechov sulla scorta della lettura allegoricamente comunista di un racconto, Il reparto n.

6, comprendiamo quanto l'aria di Anton Pavlovic, l'aria che lui a fatica respirava per colpa dei polmoni malati, le sia entrata nel sangue. «La gloria postuma offre di queste sorprese...», scrive Irène.
Ed era ironica, lievemente cechoviana.

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