A chi pensiamo quando pensiamo a uno scrittore nato a Newark, New Jersey? Al grande Philip Roth, certo. Forse ad Allen Ginsberg e Paul Auster, e di solito l'elenco termina qui. Manca il nome di colui che fu un tempo definito il ragazzo meraviglioso delle lettere americane: Stephen Crane. I francesi in proposito usano una parola rivelatrice: incontournable: cioè «inevitabile», «inaggirabile», impossibile da trascurare. Pensiamo al romanzo che lo rese famoso, Il segno rosso del coraggio, ispirato alle vicende della Guerra di secessione e pubblicato nel 1895. In Italia è in catalogo da tempo immemorabile, oltreoceano è considerato una pietra miliare del naturalismo americano e Hollywood gli ha dedicato due film, di cui uno diretto dal grande John Huston.
Nato nel 1871 e morto nel novembre del 1900, Stephen Crane incarna agli occhi di noi europei il modello dello scrittore americano anti-accademico, individualista, insofferente di affiliazioni a gruppi e gruppetti e, soprattutto, ansioso di gettarsi nella tumultuosa realtà dei suoi tempi per la via più diretta, quella del giornalismo di cronaca. Dunque eccolo, a diciannove anni - già buttati al vento i suoi studi universitari - affiancare la scrittura narrativa al lavoro per i quotidiani di New York, un lavoro sul campo, a contatto con gli ambienti meno raccomandabili della Manhattan dell'epoca. Dalla sua esperienza nella Bowery, oggi zona prediletta da artisti e artistoidi del Lower East Side ma allora ribollente bassofondo popolato di delinquenti e puttane, nacque il suo primo romanzo, Maggie ragazza di strada. Seguì Il segno rosso del coraggio, ambientato nella Guerra di Secessione, che lo consacrò definitivamente come esponente di punta del naturalismo americano (e in seguito gli guadagnò l'inclusione nella celeberrima antologia curata da Ernest Hemingway, Uomini in guerra: le migliori storie di guerra di tutti i tempi).
Caratteristico di Crane fu sempre il rapporto osmotico tra autobiografia, pratica giornalistica e scrittura narrativa. I suoi reportage dal West e dal Messico finirono per generare una fioritura di racconti. E soprattutto, dall'esperienza del naufragio del Commodore - il piroscafo che nel novembre 1896 lo portava da Jacksonville a Cuba, dove avrebbe dovuto seguire il conflitto tra i ribelli e il governo coloniale spagnolo - nacque il più famoso dei suoi racconti, La scialuppa, ora provvidenzialmente ripubblicato in Italia da Elliot insieme ad altre sei short stories di ambientazione messicana o di frontiera (La scialuppa e altri racconti, Elliot, pagg. 190, euro 18,50).
La scialuppa rappresenta il culmine della scrittura di Crane, con il suo costante oscillare tra la descrizione dello scatenamento degli elementi e l'attrazione per la psicologia degli uomini: il racconto di un naufragio è espressionistica evocazione della forza primordiale del mare e allo stesso tempo omaggio alla fragilità umana e al coraggio dei quattro protagonisti nell'opporsi a quello che gli appare lo strumento di un destino avverso. Crane entra nella loro mente, ci svela le loro paure, la loro rabbia di fronte agli scherzi beffardi delle onde e della risacca, forza - senza tuttavia romperli - gli schemi formali della narrativa naturalista della sua epoca sicché noi, oggi, leggendolo abbiamo l'impressione di uno scrittore che per quanto si impegni nel perseguimento della «verità nuda» rimane ancora confinato all'interno di una forma tipicamente ottocentesca.
La grandezza de La scialuppa fu immediatamente riconosciuta e lo rese un racconto molto amato dagli scrittori contemporanei e delle generazioni successive. La critica non ha mancato di sottolineare la sua influenza su Joseph Conrad (in particolare Il negro del Narciso) e soprattutto sull'Hemingway de Il vecchio e il mare.
In generale, nei suoi racconti si ritrovano fianco a fianco le modalità narrative della grande tradizione realistica dell'Ottocento e forme - come l'inizio della storia in medias res - che poi si sarebbero affermate come standard del racconto novecentesco.
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