Il dossier sugli amori gay che distruggeva i Savoia

Tra le carte scomparse, c'era anche un fascicolo micidiale su Umberto. Fu restituito alla corte. Gli altri carteggi invece finirono in "mani rosse"

Il dossier sugli amori gay che distruggeva i Savoia

Tra i dossier «top secret» che Benito Mussolini recava con sé, nel suo ultimo viaggio fino a Dongo, una particolare delicatezza rivestiva il fascicolo scandalistico sugli amorazzi gay del principe di Piemonte, Umberto. Si trattava di un incartamento contenente anzitutto poesie autografe del principe ereditario dedicate a un sottufficiale della marina tedesca basato a Napoli, più altra corrispondenza a luci rosse del futuro re di maggio. Non meno compromettente era il verbale di interrogatorio dell'agente di Pubblica sicurezza Vincenzo Beneduce, «comprovante», così era scritto, «l'invertimento sessuale di Umberto». Beneduce era l'attendente del principe e sapeva parecchio delle sue «amicizie particolari»: anche per esperienza diretta, essendo stato destinatario di tentativi di seduzione. Non vi è chi non veda che materiale del genere, finito in mani sbagliate, avrebbe distrutto la reputazione del principe, determinando un'impasse dinastica che ne avrebbe precluso l'ascesa al trono.

Lo spericolato delfino amava scherzare col fuoco, disseminando l'intero esercito italiano di sue corrispondenze sentimentali. Ne seppe qualcosa il tenente dei bersaglieri Enrico Montanari, che nel 1927, a Torino, fu corteggiato con insistenza da Umberto, il quale gli regalò un accendisigari d'argento, con incisa la scritta «Dimmi di sì». Le lettere che ricevette da «sua altezza» gli vennero sequestrate dalle autorità militari, con uno stratagemma. Tra le relazioni maschili che si attribuiscono al principe, vi furono quelle con Luchino Visconti e con l'attore francese Jean Marais.

Durante le Repubblica sociale italiana, la stampa neofascista cominciò a mettere in dubbio la mascolinità di Umberto, soprannominato «Stellassa». Poi, durante l'infuocata campagna per il referendum istituzionale del 1946, quello in cui gli italiani scelsero la Repubblica, Pietro Nenni, nella foga oratoria d'un comizio, chiese alla folla: «Volete forse un re pederasta?».

È evidente che Mussolini, un vero maniaco del genere «rilievi a carico», sguazzasse in questa fanghiglia. Si confezionò, su misura, come un abito di sartoria, il dossier su Umberto, con finalità ricattatorie, cioè come una vera e propria pistola puntata sui Savoia. Quando i partigiani anticomunisti, a Dongo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945, cominciarono lo spoglio dei documenti mussoliniani, a Villa Camilla, dove abitava il loro consigliere occulto, l'agente segreto ed ex fascista Piero Bruno Puccioni, emerse anche il fascicolo sul principe di Piemonte. Si avviò a quel punto una delicata partita politica, volta a impedire che quelle carte potessero deflagrare, contribuendo ad affossare la monarchia, il cui prestigio appariva peraltro già minato. I partigiani di orientamento moderato che si raccoglievano attorno a Puccioni, erano quasi tutti monarchici, e anche l'uomo del Sim lo era. Un ruolo di primo piano, in quel frangente, venne svolto da Antonio Scappin «Carlo», figura di partigiano-finanziere il cui nome è ricorrente negli studi sui fatti di Dongo. Puccioni, in una lettera inedita scritta nel 1987 a Renzo De Felice, così descrisse il personaggio: «“Carlo” era una persona intelligente e audace che si mise subito a fianco di “Bill” (Urbano Lazzaro) e “Pedro” (Pier Bellini delle Stelle), di (Stefano) Tunesi e Aldo (Castelli) ed a mia completa disposizione, dichiarandomi riservatamente di essere un fervente monarchico. “Carlo” in pochi giorni conquistò gli esponenti partigiani, collaborò coraggiosamente, si prestò a controllare alcuni avversari, partecipò alle riunioni del Clnai e vide, durante una notte, il contenuto delle due borse (di Mussolini) nella villa di Domaso. Quando rintracciammo, in una delle due borse, fra i tanti inserti, il rapporto del brigadiere di P.S. Beneduce su Umberto, mi fu di valido aiuto per ottenere che il documento non finisse in mani straniere e per provvedere che io stesso lo segnalassi a mio zio Dainelli (Giotto Dainelli, presidente dell'Accademia d'Italia), il cui figlio era un funzionario diplomatico molto legato a Casa Reale. E così avvenne, almeno per qualche giorno; poi portò il documento (o i documenti) a Umberto dopo aver fatto una inutile visita a Cadorna (Raffaele Cadorna, comandante del Corpo volontari della libertà) per informarlo della notizia e chiedere istruzioni».

Nell'ottobre del 1945, Scappin si recò a Roma, con il fascicolo. Fu ricevuto dal luogotenente Umberto, a cui consegnò le carte. Ne ricevette, in segno di gratitudine per l'alto servigio svolto, un'onorificenza sabauda. Un anno più tardi, Puccioni cominciò a fremere per recuperare i dossier esteri di Mussolini, di cui si erano perse le tracce, dopo il misterioso viaggio a Firenze di cui ci siamo occupati in un precedente articolo. In una lettera a Scappin, del 5 ottobre 1946, pur con mille cautele, l'agente segreto coperto fa trapelare la sua preoccupazione per la sparizione dei carteggi: «A proposito della frase che mi riporta nella sua lettera: a mezzo Dani (Dainelli) le mandai a dire di non consegnare più a nessuno quei famosi fogli, tranne quelli personali che riguardavano la persona che lei sa e che mi risulta averli avuto quando lei venne qua (il riferimento è al dossier su Umberto, ndr). Ma gli altri dove sono? A quanto ho potuto sapere sarebbero oggi di enorme importanza. Più non posso dirle: ma sarebbe veramente indispensabile vederci per questo ed altri motivi». Scappin risponde il 21 novembre successivo, con una frase lapidaria che conferma l'avvenuta dispersione del patrimonio documentario: «Vorrei parlarle di molte cose e anche di quelle carte, che ritengo (e ne ho buon motivo) in mani rosse. Intanto la prego di essere meno parco di parole nelle sue lettere e di dirmi qualche cosa di più in merito a quanto reciprocamente ci interessa».

Dunque, i carteggi finirono in «mani rosse», cioè nella disponibilità dei comunisti.

Ciò, più che per la scrematura dei materiali di Dongo, che, secondo Puccioni, Bellini avrebbe portato con sé a Firenze nel maggio del 1945, potrebbe valere per la parte maggioritaria della documentazione che venne spartita tra i partigiani e fotoriprodotta a Como durante quello stesso periodo. (4 - fine)

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