Quel tragico legame tra droga e guerra

Dalle droghe come movente e obiettivo da eradicare in conflitto a quelle usate per motivare e disinibire i soldati. Peter Andreas, politologo e docente presso la Brown University, nel libro "Killer High. Storia della guerra in sei droghe" spiega il legame tra mondo bellico e sostanze psicotrope

Quel tragico legame tra droga e guerra

Quello tra guerra e droghe è un rapporto antico, complesso, osmotico. Il conflitto è essenza stessa delle relazioni tra le comunità umane, fin dall'inizio della storia, e ogni civiltà umana ha costruito attorno alla possibilità di combattere sistemi valoriali, politici, sociali. Dalla ritualizzazione delle guerre nell'America precolombiana allo ius ad bellum romano, per arrivare fino ai sistemi più moderni, l'uomo ha cercato di creare una serie di convenzioni per governare ciò che nella storia si è reso spesso inevitabile: lo scoppio di conflitti in cui ciò che è tabù nella convivenza civile, cioè uccidere i propri rivali, diventa programma.

In questo contesto, le droghe hanno accompagnato ovunque la discesa in campo di eserciti e condottieri. In una corrispondenza quasi biunivoca: dove c'è guerra, ci sono droghe di ogni tipo. Intese in questo senso come sostanze inibenti a cui soldati e membri delle armate di ogni tempo sono stati assuefatti per compeire quello che nel consesso "civile" non riuscirebbero probabilmente a fare.

Peter Andreas, politologo e docente presso la Brown University, nel libro Killer High. Storia della guerra in sei droghe, pubblicato in Italia da Meltemi, ci conduce in un viaggio storico per comprendere il rapporto che, fin dall’antichità, lega le guerre a tabacco, alcool e altre sostanze psicotrope ed eccitanti. Così come Margaret MacMillan ha sostenuto in War - Come la guerra ha plasmato gli uomini che le società siano indissolubilmente legate nel loro sviluppo all'esistenza dei conflitti, Andreas aggiunge che le droghe o la trasformazione di diverse sostanze in droghe abbiano giocato un ruolo nel loro sviluppo concreto. E non solo per l'utilizzo che generali e comandanti ne hanno fatto per rendere più pronti al combattimento i soldati.

Da un lato, con l'enorme sviluppo del narcotraffico come fattore di finanziamento di conflitti ed instabilità. Pensiamo al Captagon, la droga utilizzata come fonte di finanziamento in Siria da diverse parti del conflitto; oppure ai grandi proventi che il traffico di stupefacenti consentiva di ottenere ai signori della guerra afghani; oppure al ruolo delle mafie balcaniche vicine alle fazioni in lotta negli Anni Novanta coinvolte nel traffico internazionale di cocaina e altre sostanze.

Dall'altro, perché le droghe sono diventate, direttamente o meno, il bersaglio di vere e proprie campagne militari. Le polizie dedite al contrasto al narcotraffico appaiono, come nota Andreas, sempre più militarizzate. In Messico i governi hanno dovuto affrontare cartelli armati e capaci di arrivare al controllo di veri e propri territori, così come in Colombia è accaduto che la guerriglia delle Farc si saldasse al narcotraffico, in un legame di alcune frange anche con il regime venezuelano e di Hezbollah. Diverso il caso di Paesi come le Filippine e gli Usa, dove la "guerra alla droga" è un'espressione dominante ma non intesa come il varo di operazioni militari contro gruppi strutturati. Notare che anche nella propaganda bellica russa, più di recente, il governo ucraino di Volodymyr Zelensky sia stato definito come costituito, oltre che da neonazisti, da "drogati" per giustificare la presunta irrazionalità delle sue mosse.

"Non si può capire la guerra senza conoscere le droghe e non si possono capire le droghe senza conoscere la guerra", sottolinea Andreas. L'autore studia la continuità tra la “guerra sotto effetto di droga”, dagli Incas alle anfetamine della Wehrmacht, la “guerra grazie alla droga”, con i casi precedentemente citati, la “guerra per la droga”, la “guerra contro la droga” a cui si aggiunge la “droga dopo la guerra”, cioè il consumo e l'abuso di alcool, tabacco e antidepressivi da parte dei soldati per sostenere lo stress causato dagli scontri bellici. Una pratia che, nota Andreas, si è ampiamente moltiplicata nel XX e XXI secolo. Il caso degli Stati Uniti e degli enormi problemi sociali dei veterani lo testimonia. Assuefatti all'orrore del conflitto, all'idea di dover scegliere tra uccidere e essere uccisi, i combattenti occidentali hanno negli ultimi decenni subito particolari casi di shock di questo tipo.

Cambiano le società, cambia la realtà dei fatti, cambia la narrazione ma la guerra resta in sostanza ciò che era all'inizio della storia umana: la negazione della regola aurea della civiltà umana, il divieto di uccidere il prossimo. Nel saggio Toward Post-Heroic Warfare, apparso su Foreign Affairs nel 1995, Edward Luttwak aveva descritto un cambiamento nelle modalità occidentali di affrontare i conflitti e di essere sempre meno capaci di accettare perdite nelle file dei propri eserciti. Questo vale anche per i combattenti dotati di dispositivi iper-tecnologici a cui si vende, spesso, l'illusione di una sicurezza che fa venire meno la legge-base della guerra nella percezione di militari e soldati di vario rango. Da qui, nei nostri tempi, l'epidemia di casi di stress post-traumatico, malattie legate ai traumi da combattimento, dipendenze.

Esplose negli Usa con un contributo fondamentale dei veterani al computo delle vittime del silenzioso massacro dell'emergenza oppiacei. Droghe e guerra sono legate più che mai. E probabilmente resteranno tali finché esisterà lo strumento bellico.

Killer High

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