Due romanzi, racconti inediti e un ritratto del grande autore danese

Due romanzi, racconti inediti e un ritratto del grande autore danese

Bang, un colpo di pistola al cuore di alcuni «ismi» (il conformismo, il bacchettonismo, il provincialismo...). Ed Herman, una carezza a un altro «ismo», l’impressionismo. Herman Bang (1857-1912) era infatti, oltre che «l’Oscar Wilde danese», lo scandaloso e goffo dandy dai grandi occhi indagatori, l’attore e impresario teatrale pasticcione, il viaggiatore in fuga dalle voci maligne, anche il primo grande scrittore impressionista. Lo disse Claude Monet, uno che di impressioni in punta di pennello se ne intendeva...
Ma in Herman Bang, uno di quei classici misconosciuti e lasciati macerare, dagli editori distratti, nella corrosiva salamoia dell’oblio, troviamo molto altro ancora. Ecco, se ne osserviamo il volto ci pare già di riconoscere quasi un fratello di Marcel Proust, però dai tratti meno gentili e più passionali. E se poi lo leggiamo, il suo proustismo fisiognomico assume, per converso, una consistenza da acquerello, una levità fabulosa e onirica che fanno pensare non soltanto alla Recherche, e assumono una musicalità alla Valle-Inclán. La casa bianca (1898) e La casa grigia (1901), che Iperborea ripropone da oggi dopo l’edizione Marietti dell’86, sono i ricordi della bella e della brutta stagione: da un lato l’infanzia e l’adolescenza idillica sull’isola di Als, con la figura dolcemente dominante della madre e del suo spirito poetico; dall’altro il passaggio alla maturità a Copenaghen, con la sagoma del nonno, «Sua Eccellenza», medico-filosofo novantenne, a scandire i nuovi tempi del disincanto e delle ristrettezze. Gli Hvide sono letterariamente coetanei dei Buddenbrook manniani, e un sottile legame di affinità elettive lega le due famiglie. Le vicende, qui come là, si trascolorano assorbendo l’inchiostro della Storia. E se nel grande affresco del tedesco è la dittatura dell’economia a governare di lontano la trama più che secolare, nei quadri del danese a fare da spartiacque è la catastrofica guerra con la Prussia del 1864. Lì si colloca la perdita dell’innocenza per un mondo ovattato e familistico, figlio della tradizione e delle piccole cose di ottimo gusto.
E allora, dov’è l’eccentricità di Bang, perché lo si avvolse, ancora in vita, nel sudario di una pelosa damnatio memoriae? Per la sua omosessualità, ovvio, e per il suo schierarsi con decisione nel campo degli sconfitti. Per quel Mikaël che narra dell’amore fra un bel giovane e il pittore Claude Zoret, forse realizzato sul modello di Rodin, per Generazioni senza speranza, e per Lungo la strada, e per quella Tine vittima dell’invasione dello Schleswig. Tutti perdenti, tutti ostaggio di un dualismo cannibale, i suoi personaggi portanti, stretti nella morsa tra convenzione e inclinazione. Il flaubertiano «c’est moi», Bang in cuor suo lo dichiarò per loro, i reietti e gli spiantati.
Ma lui stesso, nell’ultima trasferta per la sopravvivenza civile, quella che ebbe come tappa e ultima meta la patria delle libertà, gli Stati Uniti, diviene personaggio sotto la penna di Klaus Mann, il figlio primogenito di Thomas, anch’egli abituato a pagare a caro prezzo la propria «eresia» sessuale. Sempre Iperborea, in occasione del centenario della morte di Bang e nel contesto del Festival di Cultura Danese in corso a Milano fino al 25 giugno, presenta per la prima volta in italiano il ritratto dal titolo céliniano Viaggio al termine della notte. Herman Bang all’interno del volume L’ultimo viaggio di un poeta, che comprende due racconti inediti di Bang (Il transatlantico e Il biglietto di ritorno) e la sua ultima lettera all’amica Betty Nansen.
La comunità danese degli States, all’inizio del ’12, è in subbuglio per l’annunciato arrivo di quel gatto nero lunatico e pericoloso. Fra dame ingioiellate e severi professori corre voce che sia drogato, perverso, corruttore.

Ma lui, con di fianco l’aitante John, il suo «angelo custode» affiancatogli dagli organizzatori, sale sul palco a New York per una lettura pubblica dei suoi scritti, in cui scatena un’irresistibile verve istrionica. Fa riflettere, commuove, coinvolge. Pochi giorni dopo, è di nuovo in viaggio in direzione West Coast, senza angelo custode. Morì su un treno, e da solo, come si conviene a un gatto nero.

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