Gadda, la cognizione del «colore»

A suo modo è un «pasticciaccio», sì, ma bello e non «brutto», la storia del premio ad personam elargito all'Ingegnere nel 1957 per il suo celeberrimo (e parafrasatissimo, almeno quanto al titolo) romanzo. E non si svolge nella romana «via Merulana», bensì nella Milano ricca di banche e lavoro ed editori e libri da pubblicare e da premiare. Per l'appunto. Orbato del «Premio Marzotto», andato ex aequo a Umberto Saba per Ricordi - Racconti e a Mario Luzi per Onore del vero, il Nostro, il Carlo Emilio Gadda, struggevasi non poco, come direbbe lui se potesse adesso rinovellare la singolare vicenda. Ma in suo soccorso venne un vecchio e munifico amico, il banchiere e mecenate Raffaele Mattioli. Il quale organizzò una gara benignamente... truccata per il nascituro alla bisogna (e poi morto in culla) «Premio degli Editori», risarcitorio riconoscimento nonché suggello di un legame profondo.
Ma, si chiese il Gran Lombardo una volta incassatolo, come ricambiare il prestigioso omaggio? Con un omaggio ancor più grande, si rispose: tutto se stesso. Naturalmente sotto la forma delle sudate e stra-corrette e stra-rimaneggiate e stra-rielaborate carte uscite qua e là negli anni Trenta e Quaranta e Cinquanta. Una silloge, di più, un'auto-antologia degli scritti d'ufficio o d'occasione. Un menu sapido condito da inchieste, pezzi di costume, riflessioni e rifrazioni tuffati nelle placide acque della sua terra, dall'Adda ai Navigli. «Vorrei porgerle un lavoruccio “caratterizzato”, araldo di tutti i difetti e delle pochissime virtù di che si contrassegna la mia attività di scrivente. Ci metterò l'anima», annunciò, mansueto e trepidante, a Mattioli. E così, traguardando il limitare, o per meglio dire la tappa che pessimisticamente come suo solito immaginava ultima o quasi, dei settant'anni, Gadda si pose ad assemblare una sorta di ritratto dello scrittore da giovane e da maturo, conferendogli, dopo una serie inenarrabile di ipotesi, dubbi e ripensamenti, un titolo gaddianamente di doppia lettura.
Verso la Certosa, infatti, che cosa significa? Per un milanese finire «in fund a vial Certusa» voleva e vuole ancora dire «levare il disturbo», «dipartirsene», insomma, morire venendo allocato a Musocco, alias Cimitero Maggiore, che proprio laggiù, al termine del lungo e oggi come allora tristo viale si erge, bianca e stentorea città dei morti. Ma per un fine letterato e storico della letteratura, «Certosa», se nel contesto meneghino rimanda alla Certosa di Garegnano, peraltro non distante da Musocco, dove Petrarca, autore amato da Gadda, soggiornò giusto sei secoli prima dell'uscita del Pasticciaccio... Solerte e inappuntabile, Liliana Orlando fa notare che «viale della Certosa» compare «nell'abbozzo del penultimo capitolo della seconda parte della Cognizione del dolore, dove “viale della Recoleta” (la Recoleta è il cimitero di Buenos Aires) si legge come lezione soprascritta alternativa a una precedente non cassata, “viale della Certosa”». Liliana Orlando ha curato la riedizione, a distanza di oltre mezzo secolo da quella targata Ricciardi nel '61, proprio di quest'abbuffata gaddiana per buongustai, Verso la Certosa (Adelphi, pagg. 250, euro 19), con una «Nota al testo» che segue passo passo la genesi della collezione. Perché era stato ovviamente il buon Mattioli a finanziare la collana ufficiosamente detta «Sine titulo» dell'amico napoletano Riccardo Ricciardi in cui comparvero le diciotto prose, alle quali qui si aggiunge La «mostra leonardesca» di Milano. In tal modo il cerchio e il sodalizio filologico-editoriale si chiude con piena soddisfazione di tutti.
In particolare di noi lettori che il pasticciaccio bello e buono ora possiamo delibare. Magari partendo proprio dalla ricetta del vero, gastronomicamente corretto e a docg (denominazione di origine controllata e... gaddata) Risotto patrio. Rècipe. Ovvero il risotto alla milanese. Per proseguire con un viaggio in Versilia, terra fertile, come ricorda lo chef Carlo Emilio, per le incursioni di grandi firme, da Riccardo Bacchelli a Thomas Mann ad Aldous Huxley. Restando invece fra le mura domestiche, leggiamo come La nostra casa si trasforma: e l'inquilino la deve subire: si era nel '59, ma non era troppo presto per prendersela con «la rivoluzione che chiamerò inutile o addirittura balorda, regalataci in molti casi dal truculento guappismo dei novatori coûte que coûte, dallo sconsiderato padreternismo dei tiralinee quattordicenni: sì: età mentale quattordici». E se lo dice un Ingegnere... Usciamo, allora, e andiamo Alla Fiera di Milano, quel circo felliniano dove ognuno recita la propria parte, fra evoluzioni e spettacoli comici fino alle sette di sera, quando: «I concorrenti si rivolgono collegiali parole, talora si salutano, si prendono sotto braccio: chi ospita il dirimpettaio sulla balilla, chi lo prega di venir ospitato sull'alfa». Non come Alla Borsa di Milano, sorta di nave dei folli dove: «L'onda ci riversava ora, con iridate beffe d'opali e lapislazzuli di paure, nella gola dei verdi realizzi».


E se il registro aulico della natura cheta e laboriosa si riverbera fino ai nostri occhi originato Dalle specchiere dei laghi, è Dalle mondine, in risaia, leggiadre quanto le fanciulle in fiore proustiane e in più con la testa sulle spalle, e soprattutto negli afrori e nei colori della Terra lombarda, con i suoi paesaggi bruegeliani o da macchiaioli toscani venuti in trasferta quassù, che stilla, come rugiada aurorale, la prosa di Gadda. Questa volta, andare Verso la Certosa è un piacere.

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