Si conclude con questo secondo articolo (che segue quello pubblicato domenica scorsa dedicato in gran parte ad Harar, la «città proibita» etiope) il reportage del nostro Stenio Solinas nel Corno d’Africa. Questa volta al centro dell’attenzione è Gibuti, l’ex Somalia Francese.
Del Corno d'Africa Gibuti è un po' la punta, oggi come un secolo fa. Lotta al terrorismo, contrasto della pirateria marittima, conflitti territoriali e di confine: dall'Eritrea all'Etiopia, dalla Somalia al Somaliland, e con il Kenya e il Sudan a fare da rinforzo, l'intera regione è stata di volta in volta oggetto di supremazie europee, supremazie nazionali locali, competizioni globali. Al Kempinsky Hôtel di Gibuti, le piscine e la palestra sono affollate di ragazzoni dell'Atalanta, la Task Force occidentale che pattuglia il Mar Rosso. C'è un contingente francese di stanza in città, uno statunitense, vera e propria cittadella fortificata, autosufficiente e a parte, uno giapponese e persino una base italiana. Sentinella piazzata fra il Mar Rosso e l'Oceano Indiano, luogo di congiunzione mitico e geografico fra Arabia e Africa, di solo affitto di basi militari Gibuti incassa cento milioni di dollari l'anno. Il resto lo fanno il porto, le banche, gli investimenti arabi e cinesi, una sorta di rendita geopolitica e di transito delle merci che da un lato alza il costo della vita, dall'altro fronteggia una disoccupazione oltre il 50 per cento, un'economia sommersa di piccoli traffici e di contrabbando, la città-satellite di Balbala, gigantesca bidonville di latta, fornace invivibile in estate...
Il nome Corno d'Africa è un'invenzione degli inglesi: trovarono che ci fosse una similitudine fra questa escrescenza verso il mare del continente africano e la punta ricurva che orna la testa dei rinoceronti. Gli arabi chiamarono Bab al-Mandab «la Porta delle Lacrime», o «dei Lamenti», il piccolo stretto che separa il Mar Rosso dal Golfo di Aden, lì dove due mari più che incontrarsi si scontrano e fra venti e correnti lo rendono un passaggio difficile e pericoloso nonché strategico. Furono però i francesi a farne, nel 1884, la testa di ponte dei loro interessi africani e asiatici: fu merito dell'allora governatore Léonce Lagarde se quello che era niente più di un isolotto di madrepore venne preferito, come futuro porto, a Obock, sul lato opposto del Golfo di Tadjoura, vent'anni prima scelto come punto di partenza per il commercio interno. Da allora, e per circa un secolo, quella fu la Côte française des Somalis, nel secondo dopoguerra elevata a dignità di Territorio d'Oltremare, infine, nel 1977, ultima colonia e ultimo possedimento francese in Africa a ottenere l'indipendenza.
Per cinquant'anni, e fino a due anni fa, era qui che la Legione straniera aveva il suo campo d'addestramento, «il migliore possibile» vista l'asprezza della sua geografia. Se vai al «Palmier en zinc», sotto le arcate di place Menelik, ne puoi ancora respirare l'atmosfera: il cameriere gibutino per allontanare i mendicanti urla a loro, in francese, degage, smamma, l'interno è scuro e fumoso, il nome stesso del locale rimanda al calore soffocante delle estati locali: non resta che piantare delle palme di zinco, per quelle vere non c'è speranza, dice una canzone...
A Gibuti Hugo Pratt, che da bambino era vissuto in Abissinia, ambienta Gli Etiopi e Scorpioni del deserto, e «Corto Maltese» si chiama un albergo poco fuori Tadjoura. Il solito Arthur Rimbaud a Tadjoura, la «città bianca», vista dal mare, bianco sporco vista da terra, ci arrivò e poi ne ripartì per andare a morire in Francia. La sua capanna-abitazione era vicino a quella che adesso è una stazione di servizio e un vecchio pozzo chiuso con i lucchetti è il luogo esatto dove venne eretta. In Fortune carrée, Joseph Kessel, l'autore di Bella di giorno, descrive il lago Assal, alle spalle della baia di Ghubbet e delle sue isole del Diavolo e del Piccolo diavolo, come «tre cerchi uno dentro l'altro, il primo d'argento scintillante, l'ultimo di quel blu intenso e profondo che si vede negli stagni. I cerchi dell'inferno»...
Fortune carrée è sotto certi tratti una biografia romanzata di Henry de Monfreid (1879-1974), che fra gli scrittori-avventurieri che vissero nel Corno d'Africa è il più esemplare, l'anti-Rimbaud per certi versi, pur se è eguale quella loro doppia vita dove l'Io diviene l'Altro e si cambia pelle per rinascere. Fra Gibuti e l'Abissinia, de Monfreid passò trent'anni: ci arrivò prima della Prima guerra mondiale, se ne andò dopo essere finito in un campo di concentramento inglese durante la Seconda, quando ormai aveva più di sessant'anni. Ad Addis Abeba, c'è ancora chi l'ha conosciuto, come Marussia Leppi, figlia di russi bianchi fuggiti dalla rivoluzione d'Ottobre e nata qui nel '22. Addis era allora un curioso crogiolo di espatriati russi, armeni, greci, italiani, belgi... Grazie all'interessamento del direttore dell'Istituto italiano di cultura, Alessandro Ruggera, l'ho incontrata a un tè in una villa color bianco-nocciola della buona borghesia armena cittadina che ancora sopravvive fra tappeti di lusso, bei quadri, mobili bar, eleganza naturale. «L'ho conosciuto all'inizio del 1942, avevo vent'anni, a un cocktail e poi a un pranzo all'ambasciata di Francia, di cui, dopo la sconfitta italiana, Monsieur de Blesson, l'ambasciatore, aveva ripreso possesso. Ero una loro amica di famiglia, davo lezioni di equitazione ai bambini... De Monfreid? Un filibustiere, incontestablement, e molto interessante: alto, molto magro, baffetti, occhi piccoli, i capelli bruciati dal sole, non bello, ma un tipo, n'est pas... Una persona speciale, con molti nemici, molto invidiato e molto detestato, sì, e insieme però molto amato e considerato dai pezzi grossi arabi e somali. Odiava gli inglesi e gli inglesi lo odiavano. Dicevano che trafficava in schiavi, che una volta ne aveva buttati a mare quaranta, con una pietra al collo, quando una loro torpille l'aveva intercettato. Voci, chiacchiere, cose così. Trafficava, certo, hashish, soprattutto, ma all'epoca, chi non trafficava... Ah, sì, era filo-italiano al cento per cento, detestava il Negus e ne era detestato. Infatti, poi, gli inglesi lo presero e lo spedirono in Kenya. Credo però che sotto sotto lo ammirassero, sa come sono, sportmen, do you know. Aveva anche una piantagione di manghi, vicino a Bidissimo, sopra Harar. Chissà se c'è ancora».
Bidissimo è la distesa davanti all'altipiano di Araoué e la casa, in pietra e argilla, di forma rettangolare, per quanto in rovina c'è ancora. Mi ci porta Lijan, da Harar, in macchina e poi a piedi, fra collinette e ruscelli, piccoli greggi, bambini-pastori. Ci sono sempre le vasche per l'acqua da lui costruite, un giardino abbandonato, una sorta di grotta nascondiglio... Adesso è in parte stalla, in parte abitazione.
Araoué fu per de Monfreid la residenza dei mesi caldi, in collina per fuggire il sole implacabile di Gibuti. Da novembre a marzo è Obock, un paio di ore di mare da Gibuti, il luogo scelto per la sua attività di trafficante e «lupo di mare» tanto detestato dagli inglesi... Si costruisce questa abitazione sulla spiaggia che oggi ospita una scuola elementare e di cucito gestita dalle suore dell'ordine delle Figlie della Presentazione di Maria al Tempio.
«Siamo in tre» mi dice suor Myriam, un'italiana. «E c'è anche un'infermiera professionale che presta la sua opera fuori Obock, sulle piste.
Prima c'erano le suore francescane, al tempo del Derg di Mengistu, ma dovettero scappare. Sì, conosco un po' la storia di questo de Monfreid, uno scrittore vero, e un po' un pirata. Dicono che si fosse fatto musulmano. Pazienza, il Signore lo avrà perdonato lo stesso».(2. Fine)
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