La grande mutazione Così la cultura italiana divenne conformista

Dalla libertà creativa degli anni '50 all'intruppamento dei '70. La Capitale fu testimone dell'involuzione di artisti e scrittori

La grande mutazione Così la cultura italiana divenne conformista

Addio a Roma di Sandra Petrignani (Neri Pozza, pagg. 348, 16,50 euro) è una sorta di baedeker culturale. Ci sono pressoché tutti i film, i libri, i quadri che hanno scandito un trentennio di vita capitolina, e quindi i registi e gli attori, i poeti, i saggisti e i romanzieri, i pittori e i critici d'arte che diedero loro vita intanto che vivevano la propria, amori e dolori, odi e amicizie, successi e fallimenti. Il risultato è un colpo d'occhio d'insieme che se da un lato lascia sbalorditi, per la quantità d'ingegno dai suoi protagonisti profuso in quell'arco di tempo e dall'autrice impeccabilmente raccontato, dall'altro pone qualche domanda. Fra la Roma povera ma bella dei '50 e quella del boom e della «voglia matta» dei '60, c'è continuità oppure rigetto? E il conformismo ideologico dei '70, cosa ha a che vedere con la creatività, anche sgangherata, ma libera, del decennio precedente?

In una frase di Ennio Flaiano, ripresa dalla Petrignani, c'è la chiave che permette di capire. «Coraggio, il meglio è passato» scrive quando il primo quindicennio postbellico è ormai alle spalle. Era una Roma che alla sua facoltà di Lettere aveva Mario Praz alla cattedra d'inglese, Giovanni Macchia a quella di francese, Ettore Paratore per il latino, Ugo Spirito per la filosofia teoretica, Giuseppe Tucci per il sanscrito e il tibetano, Angelo Brelich per la storia delle religioni… Era la Roma di Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente», l'autore di «Distesa estate/ stagione dei caldi climi/ dei grandi mattini», con il suo centro storico scalcinato e seminato di bordelli, «vizio e sole, croste e luce!» scriverà Pasolini a un amico, dove gli intellettuali vivevano in camere ammobiliate o stavano a pensione, la vita costava poco, non si guadagnava molto, si mangiava a credito. Era una città di una bellezza indicibile, dove la maestosità dei monumenti conviveva ancora con le botteghe, il latte era venduto in bottiglie di vetro, le sigarette «sciolte», le vie si chiamavano «consolari» e un bambino poteva ragionevolmente pensare che nessuno gli avrebbe fatto del male. Si giocava a pallone per strada o nei giardinetti di fronte, e tua madre ti chiamava dalla finestra, il giornalino di Capitan Miki costava 15 lire, c'erano i gelati da venti, le professioni statali avevano ancora un senso e un decoro, il benessere voleva dire fatica, frutto di sacrifici e di una certa idea di sobrietà, tutti o quasi indossavano una divisa, i portieri, i bidelli, gli alunni, i netturbini, i tecnici, la periferia non aveva ancora mangiato la campagna, i geometri non erano ancora diventati architetti… In Amici per la pelle, un film di Franco Rossi del 1954 stranamente sfuggito all'attenzione critica della Petrignani, storia dell'amicizia fra il figlio di un piccolo artigiano e il figlio di un diplomatico, quest'ultimo era interpretato dal primogenito del comandante Julio Valerio Borghese, il che la dice lunga sulla composizione politico-sociale di un Paese che si era buttato alle spalle il fascismo, ma non aveva ancora istituzionalizzato l'antifascismo.

Nel 1959, quel decennio si chiude con un duplice canto del cigno, letterario e cinematografico. Il premio Strega lo vince Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, davanti al pur meraviglioso La casa della vita di Mario Praz. Bobi Bazlen, geniale e irregolare talento letterario sottovaluta però quel romanzo. Lo definisce «un buon technicolor da e per gente per bene», perfetto esempio di quella critica blasé che nel decennio successivo si perfezionerà nell'abbassare l'alto e sollevare il basso, il divertissement e il fatuo preferiti al serio. Ma è Cristina Campo, scrittrice schiva e appartata, a cogliere nel segno: «È un libro tragico, senza rapporti (grazie a Dio) con la nostra letteratura attuale. Dove, s'intende, se ne parla come un libro “brillante” (o poco più)». Se Il Gattopardo raccontava il fallimento del Risorgimento, e quindi una catastrofe nazionale, La dolce vita di Fellini metteva invece in scena la fine delle illusioni del dopoguerra, la consapevolezza che ciò che ci attendeva era solo decadenza. «È tutto rotto. Non crediamo più a niente. E allora? Tutto questo detto virilmente, senza nostalgie, senza sentimentalismi» spiegherà il regista cogliendo in anticipo ciò che nell'Italia di allora era ancora embrionale: lo svacco e lo sbraco, la crisi delle idee e degli ideali, l'asservimento intellettuale, lo strapotere dei soldi, il venir meno delle élites.

Giustamente Sandra Petrignani mette come uno degli esergo di Addio a Roma una frase del Pasolini di La rabbia, perfetta nel delineare ciò che sarà: «Il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico, va verso una nuova preistoria». Sta scomparendo una civiltà, e quindi un'identità e un'armonia e la grande mutazione che ne prende il posto trasforma in bulimia distruttiva un'ansia del nuovo che non ha più argini. Non è un caso che il vitalismo pasoliniano vedrà, all'inizio dei Settanta, un poeta cinquantenne che ha solo il suo corpo da opporre e da esporre nell'illusione di fermare il tempo: lo sport, le diete, il Gerovital, il tingersi i capelli raccontano l'ossessione di chi non vuole dichiararsi vinto pur sapendo di essere ormai uno sconfitto.
I '60 sono così, e questo Sandra Petrignani lo coglie benissimo, il decennio dove la neo-avanguardia pittorica e letteraria si muove con un furore che non contempla prigionieri, spingendo sempre più il pedale della sperimentazione, di pari passo con un Paese febbrilmente teso alle nozze con la modernità. La speculazione edilizia salda ormai i palazzinari di centro, destra e sinistra, e nella sigla «Calce e martello» racconta una nuova geografia del potere economico-politico. Tempo qualche anno e, complice il '68 che sul piano del costume seppellisce definitivamente l'Italia che fu, la neo-avanguardia si ricicla in un'ortodossia ideologica pigramente conformista eppure feroce, fenomeno di moda e di gruppo, antiborghese nella sua perorazione operaia e proletaria, arciborghese nella difesa dei privilegi, cattedre, contratti, impieghi, ormai conquistati.

Il grido di dolore di Alberto Moravia in morte di Pasolini, «Abbiamo perso un poeta, i poeti sono sacri», sincero quanto anacronisticamente elitario, nel momento in cui la sacralità è ormai appannaggio delle masse e delle loro lotte, racchiude in sé la fine di un'epoca, di un mondo, di uno status.

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