La guerra fu davvero Grande "Condannarla" è una idiozia

Secondo l'opinione corrente il primo conflitto mondiale fu una strage inutile, da ricordare con vergogna. Le cose non stanno così: basta osservarle con realismo

La guerra fu davvero Grande "Condannarla" è una idiozia

A cent'anni dall'entrata dell'Italia nella Grande Guerra sembra ormai acquisita, nell'opinione comune, l'idea che si sia trattato di una «inutile strage», come ebbe a dire il Pontefice. E certo 600 mila morti, la crisi irreparabile del sistema politico messo in piedi dall'Italia risorgimentale e liberale, il vuoto di potere che, anche nel nostro paese, scatenò tensioni inedite sfociate poi nella dittatura, furono un prezzo altissimo pagato all'euforia del radioso maggio. Eppure, va considerato che l'intervento dell'Italia avvenne a guerra iniziata da altri e che il nostro paese fu decisivo per quanto riguardava la posta in gioco: consentire all'impero tedesco l'egemonia sull'Europa (non insulare) o salvaguardare l'equilibrio continentale affidato alla cordiale intesa di due potenze democratiche come la Francia e l'Inghilterra. Sono considerazioni che non hanno alcun peso per la nostra cultura politica: siamo diventati tutti «buonisti» e, adagiati nelle nostre comode poltrone, siamo pronti a condannare tutte le guerre e i mercanti di cannoni. C'è il sospetto, però, che a spiegare il nostro idealismo sia il fatto che «siamo platonici perché siamo materialmente deboli», come scrisse non un teorico nazionalista ma uno dei pochi filosofi marxisti del primo Novecento, Antonio Labriola. Ben vengano, pertanto, volumi come quello curato da Francesco Perfetti, per l'editrice Le Lettere, La Grande Guerra e l'identità nazionale. Il primo conflitto mondiale nella politica e nelle istituzioni che posano sugli eventi lo sguardo realistico e disincantato dell'analista. Lo storico, direttore della rivista Nuova Storia contemporanea , sulle orme di Rosario Romeo e di Piero Melograni, delinea, con grande maestria e sicuro possesso delle fonti, le luci e le ombre di un'avventura vissuta come conclusione del Risorgimento e alba di una nuova era di affermazione della nazione nel mondo. «Per il triste bagaglio di milioni di morti delle generazioni più giovani e per le pericolosa eredità di pulsioni rivoluzionarie e di suggestioni autoritarie e avventuristiche», la Grande Guerra «fu un evento fortemente traumatico» ma che «gettò le premesse per un sempre più massiccio e coinvolgente ingresso delle masse nella vita politica del Paese con il proposito di influire sui centri decisionali del potere politico ed economico». Essa, inoltre, fu un potente fattore di modernizzazione dell'economia italiana e, sul piano politico, favorì le aspirazioni al rafforzamento dell'esecutivo e, più in generale, a tutte quelle soluzioni che, a qualsivoglia livello comportavano unicità di decisione - un rafforzamento, va detto, che travolse le democrazie deboli (come la nostra) ma ridefinì e rafforzò le altre.

Tra i contributi del volume, oltre a quelli del curatore, si segnala, per il suo spessore storico e teorico, il saggio di Andrea Guiso che fa giustizia del luogo comune che vede un nesso di causa-effetto tra la Grande Guerra e le tirannie novecentesche e avalla «la tesi che vede nella guerra mondiale l'incubatrice esclusiva di culture, retoriche e metodi totalitari di lotta e di organizzazione delle masse che avrebbero finito per trovare applicazione su vasta scala nell'Europa degli anni Venti e Trenta». In realtà, anche «in pieno dramma la politica tornava a rivendicare i suoi diritti» e i Parlamenti erano tutt'altro che assemblee che assistevano mute e impotenti alla grande tragedia europea.

Nel libro il lettore trova una rassegna documentata dell'atteggiamento tenuto, nel nostro paese, dai nazionalisti, dai liberali, dai popolari, dai socialisti dinanzi all'intervento e ai tempi e ai modi in cui entrammo in guerra. Va rilevata, tuttavia, nelle pagine dedicate al nazionalismo un'eccessiva attenzione al tipo di storiografia che trova il suo caposcuola in George L. Mosse. Soprattutto nel contributo di Lorenzo Benadusi, Immagine del soldato e militarismo nel nazionalismo italiano dalla Grande Guerra al fascismo(1914-1923) , le retoriche «vissute» dei proclami nazionalisti fanno pensare a pericolose allucinazioni di letterati nichilisti e pseudo-nietzschiani, che, malauguratamente, si sono convertite in atteggiamenti collettivi. «La violenza concepita come mezzo di rigenerazione era diventata una legittima manifestazione degli istinti naturali dell'uomo alla lotta, alla conquista e alla distruzione». In realtà, si tratta di aspetti innegabili dell'ideologia nazionalista - trattata, peraltro, in maniera ben più equanime e più distaccata nelle pagine di Andrea Ungari I nazionalisti e la prima guerra mondiale -ma «sovrastrutturali», per adoperare la vecchia terminologia marxiana. Come mostrò, nel magistrale saggio, La scoperta dell'imperialismo (Ed. Lavoro), uno storico oggi quasi dimenticato, Giuseppe Are, al di là della loro insopportabile retorica, i nazionalisti «vedevano con grande chiarezza l'importanza che i fattori politici, militari e territoriali avevano avuto all'origine delle maggiori economie capitalistiche e come componenti dei loro successi» e si mostravano «particolarmente penetranti nel demistificare tutte le illusioni che vi erano nell'idea dell'espansionismo pacifico» esaltato, ad esempio, da Luigi Einaudi nel Principe mercante .

«La genesi, la natura, i modi operandi dell'imperialismo erano compresi nel modo più lucido e spregiudicato»: ne derivavano, certamente, analisi e giudizi di valore che oggi ci sembrano eticamente inaccettabili ma che non possono venire affrontati con un approccio estetico (e in fondo moralistico) che ignora la grande storiografia - dei Gioacchino Volpe, dei Rosario Romeo, dei Benedetto Croce.

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