Non fu semplicemente uno scrittore, l'austriaco Gustav Meyrink (Vienna, 1868 Starnberg, 1932), né le sue opere possono essere classificate pigramente nella categoria del fantastico o dell'horror. La cosa vale per ogni suo romanzo, dalla rilettura dell'antica leggenda rabbinica sul Golem a L'angelo della finestra d'Occidente che ha come protagonista il mago dell'epoca elisabettiana John Dee, e ancora di più per Il domenicano bianco del 1921. Quest'ultimo è stato appena riedito da Bietti (pagg. 290, euro 18) a distanza di quasi settant'anni dalla prima uscita italiana.
Di quella pionieristica versione viene riproposta la traduzione di Julius Evola, e l'interesse di questo filosofo ed esoterista è un'ulteriore dimostrazione del fatto che Meyrink più che un autore di opere di fantasia era un indagatore di mondi spirituali, forse iniziato alle discipline occulte e alle pratiche della magia. Insomma, uno che trafficava non soltanto con l'inchiostro, ma anche con archetipi e misteri. Possiamo anche non dargli credito, considerarlo un ciarlatano, come sicuramente farà un lettore imbevuto di positivismo e scientismo. Eppure è lui stesso a porsi la domanda fondamentale nell'incipit del romanzo: «È davvero un creare il mio, oppure la mia immaginazione, in fondo, è solo una specie di apparato ricevente? Qualcosa di simile a quel che nella telegrafia senza fili è un'antenna?». Dunque, per scrivere questo «diario di un Invisibile» la mano di Meyrink è stata forse guidata da qualcosa di più alto della semplice e individuale ispirazione poetica.
Con l'ausilio di «una forza eterna, libera, riposante in se stessa, sciolta da qualsiasi forma», Meyrink scrisse la storia di Cristoforo Colombaia (nome limpidamente cristiano, dato che rimanda al santo «portatore del Cristo» e alla colomba che simboleggia lo Spirito Santo), abbandonato ancora infante davanti al portale di una chiesa dedicata a Santa Maria. Il tempio cristiano venne costruito, così vuole la leggenda, da un domenicano chiamato Raimondo di Pennaforte. E l'ombra di questo monaco viene proiettata «in certe notti di luna nuova» sulla piazza davanti alla chiesa. Ma il legame fra Cristoforo e Pennaforte è ancora più stretto, riguarda la vita passata del protagonista, gli stessi misteri della morte, della vita e dell'immortalità. Come ricorda nell'introduzione Gianfranco de Turris, curatore del volume, il messaggio di fondo è quello di cercare «un risveglio alla vera vita», ricollegandosi alle proprie radici, congiungendosi con il proprio doppio, la controparte femminile (quella di Colombaia porta il nome shakespeariano di Ofelia) per conseguire attraverso l'amore ciò che gli alchimisti chiamavano «Grande Opera alchemica», l'annichilimento degli opposti, di ogni dualismo.
Meyrink mette però in guardia dai rischi dell'occultismo degenerato nelle sedute spiritiche e dalle tradizioni orientali banalizzate in Occidente. Rischi ben presenti ai suoi tempi e ancor più ai nostri. Invita anzi a non trascurare il nostro retaggio, a riunire la tradizione iniziatica degli esoteristi con quella rappresentata dalla Chiesa, «quali pezzi di un'unica spada da rinsaldare» per usare le parole di un Evola per nulla entusiasta dalla prospettiva. Quindi, Meyrink ha lasciato qualcosa in più di una semplice letteratura fantastica, e il volume edito da Bietti ce ne dà ulteriori conferme con i saggi contenuti in appendice: Gérard Heym e lo stesso Evola trovavano nei suoi scritti echi dello yoga taoista praticato nell'antica Cina, Massimo Scaligero nel 1934 collegava l'autore austriaco alla migliore filosofia europea (da Giordano Bruno a Michelstaedter, passando per Novalis e Nietzsche).
E se qualcuno nutrisse ancora dubbi, potrebbe meditare proprio le parole di Scaligero: «Che la mentalità positiva dei moderni sia chiusa a tutto questo e chiami fantasia e superstizione ciò che non riesce a intendere, rivelandosi però essa stessa superstiziosa all'affiorare di taluni strati irrazionali della psiche; ciò non toglie nulla all'obiettività di tale esperienza trascendente».
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