L'Italia vista da Ottone, cronista poco obiettivo

L'ex direttore del "Corriere", oggi editorialista di "Repubblica", racconta un secolo della nostra storia. Ma solo con l'occhio dell'antiberlusconiano

L'Italia vista da Ottone, cronista poco obiettivo

Novanta è il titolo del libro (Longanesi) che Piero Ottone dedica alla sua anagrafe e alla sua vita. Un racconto fitto di personaggi e di episodi, perché Ottone - il cognome vero era Mignanego - ha avuto un percorso giornalistico di prim'ordine e una invidiabile rete di conoscenze anche politiche ed economiche. Li ha avuti come inviato, come direttore del Corriere della sera, come editorialista di La Repubblica. Le sue pagine non sono sfavillanti - è lui il primo a riconoscerlo - ma sono a mio avviso sempre interessanti. Consentono oltretutto a chi legge di capire la psicologia dell'autore. Un pessimista pragmatico, un progressista cauto, un grande ammiratore della società inglese, un osservatore distaccato - con molta acredine - dei vizi italiani. Siamo colleghi - da tempo immemorabile (anch'io lasciai il Corriere di Ottone con Montanelli) e ci siamo sempre molto rispettati. Come avviene tra coetanei - per verità ho tre anni più dei suoi - e come avviene tra buoni professionisti.

Non tacerò i miei motivi di dissenso con Ottone che di sicuro non tacerà i suoi nei miei riguardi. Dalle osservazioni di Ottone devono guardarsi anche gli amici. C'è della perfidia nella sua ostentata imparzialità. Il volume ha una prefazione altamente elogiativa di Eugenio Scalfari, ricambiato con espressioni di fervida ammirazione. Ma a un certo punto Ottone traccia un parallelo tra Scalfari, cui è strettamente legato, e Montanelli, con cui litigò a tal punto che l'impareggiabile Indro abbandonò il Corriere e fondò il Giornale. «È interessante per definire la diversità tra i due grandi giornalisti del loro tempo - scrive Ottone - una diversa reazione alla prospettiva di essere nominati senatori a vita. Montanelli fece sapere che la cosa non lo interessava. A Scalfari penso che sarebbe piaciuto moltissimo». Già, diversa reazione. A Ottone l'Italia non piace (tranne che per il mare, la sua passione; in Austria gli sarebbe più difficile navigare). Ottone si occupa del «miracolo», di Enrico Mattei, di Leopoldo Pirelli e di Gianni Agnelli ma rimane, per quanto riguarda la penisola, del suo parere. L'Unità fu un errore, il «miracolo economico» una parentesi e quasi un inganno. «Fatti come quelli che ho descritto - Ottone dixit - ci collocano, inevitabilmente, al livello non dei Paesi di compiuta civiltà, fra i quali vorremmo essere annoverati, ma del Terzo Mondo». Semplice? No perché la valutazione spregiativa dell'Italia ha un obbiettivo. «E così si spiega - ossia con l'appartenenza al Terzo Mondo - la presenza e la fortuna di un personaggio quale Silvio Berlusconi: averlo accettato, avergli dato il potere per vent'anni attraverso libere elezioni è segno di totale indifferenza di fronte all'immoralità, di fronte alla mancanza di regole nella vita pubblica».

Ottone sta, in questo saggio, dalla parte della sinistra o per essere più concreti dalla parte dell'antiberlusconismo. Solidarizza con il pool di Mani Pulite, pur preferendo di gran lunga Francesco Saverio Borrelli, impeccabile gentiluomo anche nell'abbigliamento, allo sgangherato Antonio Di Pietro. Traspare una sua antipatia per il filone dei giudici «scamiciati, voglio dire soltanto che se gli uni (i tradizionalisti, ndr) non si vedevano mai senza giacca e cravatta gli altri non se la mettono mai». E qui viene la stoccata alle toghe pur molto blandite: «I nostri magistrati hanno chiuso d'imperio stabilimenti con migliaia di operai, hanno messo a repentaglio la sopravvivenza di grandi settori dell'industria nazionale quale la siderurgia. Compito della magistratura?». Quanto al terrorismo, Ottone trova una razionalità allucinata in quello di estrema sinistra, quasi soltanto pazzia in quello di estrema destra. A proposito di terrorismo, non posso esimermi dal rievocare la gambizzazione di Montanelli e l'omissione del suo nome nel titolo del Corriere della sera. L'episodio, se non mi è sfuggito qualcosa, è così liquidato in Novanta: «Camminando in una calle veneziana sentii da una radio a tutto volume che poco prima avevano aggredito e gambizzato a Milano Indro Montanelli, allora direttore del Giornale. A mezzogiorno andai a colazione al Danieli e il vicequestore di Venezia, cortese e compito, venne ad informarmi che da quel momento sarei stato accompagnato da una scorta». Sul titolo e la sue omissioni nulla.

Il capitolo iniziale del libro è dedicato al Ventennio fascista con il titolo «Un grand'uomo, Mussolini» e con la sincera confessione che anche lui, Ottone, aveva ammirato da ragazzo il Duce e che la dittatura «non mi ha dato molto fastidio». I capitoli finali sono largamente dedicati al protagonista del secondo Ventennio, Silvio Berlusconi. Maltrattato come era inevitabile, tuttavia non senza riconoscimenti delle sue doti eccezionali di condottiero e capopopolo. Non indugio su quei temi complessi - la guerra di Segrate per il controllo della Mondadori, l'impero televisivo del Cavaliere - che Ottone tratta con parzialità scontata. Raffigurando in Scalfari, in Carlo Caracciolo, in Carlo De Benedetti, la pattuglia d'eroi che ha difeso il bastione della libertà. Nessuno dei personaggi citati ha secondo me le caratteristiche dell'apostolo puro e duro, o del combattente indomito per il trionfo della verità. Sono uomini di mondo e di potere, con i loro interessi e con le loro meschinità. Occupandosi di Berlusconi, Ottone afferma che «il narcisismo è la caratteristica dominante del personaggio: il quale vuol ridurre tutto e tutti alla sua altezza o alla sua bassezza. Ha un unico gigantesco obbiettivo. L'affermazione di sé stesso, il successo personale». Nel confronto brillano per misura e riservatezza mammolette come Scalfari e De Benedetti. Piero, siamo purtroppo vecchi, scettici, smaliziati. Lasciamo le leggende a chi ci crede ancora. Tu pensi tutto il male possibile dell'Italia, e sai che in molte occasioni mi sono espresso anch'io più o meno come te.

Ma la regola vale a un patto: che non si voglia fare di Berlusconi un concentrato delle nequizie patrie, e di coloro che lo avversano i campioni d'una cristallina indipendenza. Indipendente era Montanelli che snobbò il laticlavio a vita. Ma solo papa Ratzinger, a quanto mi risulta, ha ragionato come lui.

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