Non è facile, di questi tempi, parlare di Cina. Provo a parlarne comunque, anche perché ritengo che la posta in gioco – un irrigidimento nei confronti della Cina - rappresenterebbe, ancora una volta, per l’Occidente, un’occasione persa in estremo Oriente. Una premessa mi pare però necessaria. Anche se ci chiudiamo nella nostra dimensione occidentale e anche se vogliamo relegare la Cina nella sua realtà geografica e politica, è inevitabile che nella vita di tutti i giorni finiremo sempre di più per imbatterci in diverse sue manifestazioni: nell’economia, nella politica internazionale, nelle scienze, nella moda, e persino nella ristorazione.
Il problema è che non sempre possediamo gli strumenti culturali per affrontare e capire questa ormai diffusa realtà cinese. Anzi, commettiamo spesso l’errore di valutarla utilizzando i parametri logici della nostra filosofia, nata dall’esperienza greca, mentre le categorie di quel pensiero sono fondate sul confucianesimo, sulla ricerca quindi di un’“armonia” universale, di un’intesa, di un accordo. Il problema di fondo rimane che, nella nostra recente educazione scolastica, alla Cina non è stato mai concesso un posto significativo. Dal 1949 in poi, e soprattutto alla fine degli anni 60, quando la rivalità fra Mosca e Pechino era al culmine, l’Italia scelse di allinearsi con le posizioni dell’URSS, abbandonando, salvo pochi ed isolati casi di lungimiranti politici e imprenditori, ogni tentativo di stabilire un costruttivo rapporto con la Cina.
È nell’esperienza di chi è più anziano che dal dopoguerra in poi nei libri di testo delle scuole superiori le informazioni sulla Cina divennero sempre più sporadiche. Se ne parlava soltanto come di una estesa realtà geografica, dall’impressionante e inquietante crescita demografica (negli anni Sessanta i cinesi erano già 800 milioni) ma poco o nulla si diceva delle origini e della storia di questo complesso Paese. Nei libri scolastici del tempo, qualche riferimento alla Cina in realtà rimaneva, ma era spesso limitato alla nostra partecipazione, nel 1900, alla difesa delle Legazioni straniere a Pechino durante la rivolta dei Boxer e alla contrapposizione politica e militare, tra il 1927 e il 1950, fra il rivoluzionario Mao Zedong e il nazionalista Chiang Kai-shek. La vicenda della “Lunga Marcia” dei comunisti, nel 1934, era però appannaggio del bagaglio culturale degli specialisti. Venne così a quel tempo steso, sulla realtà cinese, un velo di opaco silenzio, che ancor oggi abbiamo difficoltà a rimuovere. Solo la letteratura e una certa cinematografia internazionale mantenevano il ricordo della Cina, anche se spesso deformato e impreciso. Le difficoltà “cognitive” di gran parte dell’opinione pubblica occidentale erano iniziate nel 1840, quando le eccedenze della produzione dell’oppio indiano ricercarono, con la forza militare inglese, sbocchi sul mercato cinese. Poiché, malgrado avesse subito una prima disfatta, Pechino continuava a opporsi all’importazione dell’oppio, nel 1860 gli inglesi, che stavolta coinvolsero i francesi, riportarono la guerra in Cina e simbolicamente distrussero lo storico e monumentale Palazzo d’Estate, orgoglio dell’Imperatore. Da quel momento, anche per noi italiani, i cinesi divennero una massa culturalmente indistinta, dedita a traffici di ogni tipo. Tranne poche eccezioni, solo i missionari cristiani, sia cattolici che protestanti, mantennero un atteggiamento più sensibile al dialogo fra le due culture.
D’altra parte, nel 1610 era morto a Pechino un gesuita italiano, Padre Matteo Ricci, simbolo, per i cinesi, dell’unica civiltà, quella romana, degna di confrontarsi con quella cinese. Scienziato e letterato, Ricci aveva colto nel segno. La sua prima opera in cinese, del 1595, fu un trattato sull’“Amicizia”: un concetto difficile, ma non impossibile, da realizzare in Cina, ricercando specifiche basi filosofiche comuni che permettano, oggi come allora, la costruzione di un ponte fra le due civiltà. L’opera complessiva di Matteo Ricci – che gode ancor oggi di grandissima considerazione fra i cinesi, tanto che la sua immagine, assieme a quella di Marco Polo, è riprodotta nel bronzo di un colossale monumento fatto erigere, nel 2000, dal Presidente Jiang Zemin per celebrare gli storici artefici della Cina che entrava nel Terzo Millennio – non è purtroppo adeguatamente conosciuta dal grande pubblico italiano, ma neanche da molti nostri politici, che non conoscono una figura che, da sola, permetterebbe di rivendicare per l’Italia una posizione di maggior considerazione.
Quando nel 2010, all’inizio del mio mandato di Ambasciatore nella Repubblica Popolare Cinese, presentai le credenziali all’allora Presidente della Repubblica Hu Jintao, fui successivamente ricevuto con simpatia dai vertici del loro Ministero degli Esteri. Ancora una volta constatai che i cinesi non dimenticano. Dopo un’esposizione di molti positivi giudizi sul nostro Paese, mi fu infatti gentilmente ricordato l’improvviso e non concordato annullamento, ai tempi di Tangentopoli, dell’imponente accordo finanziario, per più di trecento miliardi di vecchie lire, concessi dalla Cooperazione italiana per la realizzazione urbanistica e infrastrutturale dell’area di Pudong, fra l’altro con notevoli vantaggi per le imprese italiane. Lasciammo così il posto ai tedeschi. I cinesi dunque non dimenticano. Per circa duecento anni, il loro Paese, che nel 1912, con la deposizione dell’ultimo Imperatore mancese Pu Yi, divenne una Repubblica, e da allora lo è sempre rimasto, aveva dovuto subire un’ingombrante presenza commerciale e militare straniera che, a seguito dell’atteggiamento ambiguo dell’Imperatrice Ci Xi, aveva dato fuoco, come noto, alle polveri della Rivolta dei Boxer. Fra le otto potenze che si incaricarono di reprimerla vi era anche l’Italia. Molte persone mi hanno confessato di non essere riuscite a seguire sino in fondo, da un punto di vista storico, il susseguirsi degli eventi descritti nel film “L’ultimo Imperatore” di Bernardo Bertolucci. Non dimentichiamo che fra le due guerre mondiali l’Italia appoggiò Chiang Kai-shek, al quale, grazie al favore di Galeazzo Ciano – in quel momento Ministro degli Esteri, ma, in precedenza, diplomatico italiano in servizio nel 1927 a Pechino, nel 1930 a Shanghai e nel 1931 Ambasciatore a Pechino – fornì aerei da combattimento e strutture a terra. Ma la nostra alleanza con il Giappone fu successivamente vista con sospetto sia dallo stesso Chiang Kai-shek che dal leader comunista Mao Zedong.
Nel 1943 i giapponesi presero il controllo della concessione italiana di Tientsin (Tianjin di oggi), e rinchiusero in campo di concentramento, sino al 1945, gli italiani – compreso l’Ambasciatore – che non avevano fatto atto di sottomissione. È vero che non è sempre facile, specialmente in una trattativa politica o commerciale, riuscire a sintonizzarsi intellettualmente con la logica cinese. È la scoperta che fa chi, per la prima volta, va a lavorare in Cina. Ma non è questo un buon motivo per arroccarsi su posizioni che non tengono conto del dipanarsi di quella Storia, parallelamente alla nostra. Dall’ignoranza nasce la diffidenza. Ancora negli anni Novanta le autorità centrali italiane ritenevano poco realistiche le richieste di visto per turismo avanzate da cittadini cinesi ai nostri Consolati (“I rivoluzionari non vanno in vacanza”) e temevano invece che esse nascondessero vie illegali di immigrazione clandestina. Con il risultato che, fino al 2010, c’erano più turisti cinesi in Svizzera che in Italia. Questo timore verso l’Oriente, manifestato spesso anche dai più alti esponenti politici del nostro Paese, rischia di portarci ad una contrapposizione che penalizzerà entrambe le parti. È vero che l’esplosione economica della Cina ha rimesso in discussione i punti di riferimento di quella che sembrava essere una ben consolidata economia mondiale.
Ben a ragione Napoleone Bonaparte avrebbe detto a Sant’Elena che «quando la Cina si sveglierà il mondo tremerà». Ma questo rischio dovrebbe spingerci a ricercare le vie del dialogo attraverso una migliore, reciproca conoscenza. Cercare di ricostruire l’origine di un popolo, lo sviluppo spesso tormentato di un Paese, la sua realtà sociale, non significa necessariamente condividere le sue ideologie. Mi vengono in mente le violente accuse di “filo comunismo” che fra tanti, in pieno maccartismo, dovettero subire nel loro Paese storici e letterati americani come Edgar Snow (il primo giornalista straniero a intervistare Mao Zedong, autore di Stella rossa sulla Cina; metà delle sue ceneri riposano, per sua volontà, nel campus della Beida University, a Pechino) e John K. Fairbank, sinologo dell’Università di Harvard. Entrambi, alla fine degli anni Sessanta, sostenevano che, per gli Stati Uniti, come per il resto del mondo, il dialogo con la Cina sarebbe stato molto più vantaggioso della contrapposizione. Di lì a poco, all’inizio del 1972, sarebbe avvenuto, con la regia politica di Henry Kissinger, lo storico viaggio di Nixon in Cina. Ciò non toglie che sino a pochi anni prima le profonde conoscenze che Snow e Fairbank avevano della Cina li avevano fatti ritenere “collusi” con un sistema politico che l’America respingeva. Oggi, chi non si sforza di capire se esistono contenuti genuinamente vantaggiosi per tutti nell’iniziativa della “Nuova Via della Seta”, o condanna aprioristicamente la condotta delle autorità cinesi dopo che il Coronavirus si è manifestato a Wuhan, giungendo a sostenere la necessità di sottoporre la Cina al giudizio di una commissione internazionale di inchiesta, ricalca sentieri tradizionalmente percorsi dall’Occidente e che non hanno mai portato a nulla di buono. La Cina non è un Paese. È invece un pianeta sconosciuto dove, quando si arriva per la prima volta, si avverte tutto il peso dello scontro filosofico.
Ma lo sforzo per una ricerca congiunta dell’armonia confuciana, la cui importanza fu colta quattrocento anni fa da Matteo Ricci, può rivelarsi ancora oggi la carta vincente.Attilio Massimo Iannucci, già Ambasciatore d’Italia presso la Repubblica Popolare Cinese.
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