La marcia di Joseph Roth fra le rovine del Novecento

Oggi per gli scrittori è corretto essere «scorretti» ed è ortodosso essere «eretici». Se non sei «scorretto» ed «eretico» non ti fila nessun critico, e di conseguenza non hai alcuna possibilità di entrare nel grande Canone del luogo comune letterario. Perciò, letto oggi Joseph Roth (1894-1939) è davvero il più inattuale degli autori.
Socialista, era «scomodo» per i socialisti, in quanto nostalgico dell'antico splendore imperialregio. E viceversa, asburgico veneratore dell'epoca francogiuseppina, dell'Austria felix, era «scomodo» per l'universo austro-ungarico, in quanto progressista e negatore delle classi. Ebreo, era «eretico» per gli ebrei, vista la sua natura di errante che dalla natia Brody, un tempo polacca e oggi ucraina, se ne andò ovunque si potesse andare (Berlino, Milano, Amsterdam, soprattutto Parigi) e vista soprattutto l'avversione per il sionismo che addirittura giunse, nel suo furore antinazionalista (ingenerosamente ma comprensibilmente, dal punto di vista di un apolide di fatto), a equiparare al nazismo. E viceversa, affascinato dalla simbologia e dallo spirito ecumenico del cattolicesimo, era «eretico» per i cattolici baciapile, proni e servili di fronte al potere.
Joseph Roth era, insomma, in un modo o nell'altro, «scomodo» per tutti. Non sapevano come prenderlo, come catalogarlo, come incasellarlo nelle categorie degli schieramenti. Del resto, i due punti fermi della sua vita... non erano fermi: erano anch'essi moti perpetui. Da un lato la vastità della Monarchia che si estendeva da Vienna fino ai confini dell'impero zarista era un crogiuolo mai visto di razze e culture che s'intersecavano e si mescolavano, un melting pot senza soluzione di continuità, una Bisanzio più che una Roma, un'autentica Europa unita ante litteram, molto più dinamica dell'attuale. E dall'altro, dentro questa sorta di tranquillo maelstrom tenuto insieme dalla figura iconica dell'imperatore c'era la tradizione dello sthetl, la dimensione provinciale e rurale delle piccole comunità dei figli d'Israele. Lì dentro, sotto la Corona e intorno ai focolari che riscaldavano i racconti dei rabbi, c'era posto per tutti. Lì dentro Roth conobbe la vera libertà. Lì dentro si formò come artista. Ecco perché oggi Roth è incontestabilmente inattuale eppure attualissimo: un senza patria con mille patrie, un migrante stanziale.
A Joseph Roth (Liguori Editore, pagg. 273, euro 19,90), Marino Freschi dedica un acuto e affettuoso saggio in cui troviamo tutto ciò. Non è soltanto la biografia intellettuale e politica di un uomo e di uno scrittore, è anche la biografia di un continente intero tra una fine e un'altra: tra la finis Austriae, il lungo processo storico originato dalla guerra austro-prussiana del 1866, e la fine della rancorosa tregua armata che separa la Prima dalla Seconda guerra mondiale. Roth nasce infatti nel 1894, l'anno in cui un ebreo come lui, Alfred Dreyfus, viene condannato in Francia per il suo presunto tradimento a favore della Prussia un ventennio prima, e muore nel 1939, in maggio, pochi giorni prima della stipula del Patto d'Acciaio fra l'Italia di Mussolini e il Terzo Reich di Hitler, che il capo del fascismo aveva per tempo preparato con le leggi razziali.
Ma forse il Roth che leggiamo nasce da un funerale, quello di Cecco Beppe. Diceva spesso, nei propri profili autobiografici intinti in dosi letali di pernod o calvasos e nel rimpianto, altrettanto letale, del «tempo di ieri», d'esser stato fra quelli che ressero la bara dell'imperatore. Potrebbe non essere fattualmente vero, ma lo è dal punto di vista letterario. Perché nella Marcia di Radetzky e nella Cripta dei cappuccini, cioè nella saga di quei Buddenbrook asburgici che sono i Trotta, c'è tutto il sapore di un mondo che pare vecchio e decrepito, ma che invece è lì vicino, vicinissimo sia alla sua stessa dissoluzione, sia a ciò che drammaticamente ne prese il posto. «Da vero romantico - scrisse il suo quasi coetaneo Hans Natonek - amava ciò che era crollato, che era stato, che era svanito e che è indistruttibile, poiché è lontano e conchiuso, non sottoposto più al cambiamento, conservato dalla leggenda».
E per sapere chi ne prese il posto è sufficiente percorrere a ritroso la biografia di Roth, il quale nel gennaio del '33 lasciò Berlino poche ore prima che Hitler salisse al potere, e la sua bibliografia, risalendo fino a La tela del ragno, che nel '23 tesse profeticamente lo sviluppo infausto del delirio hitleriano quando questo muoveva i primissimi passi. D'altra parte, un ebreo errante porta l'esilio nel Dna, e che s'inabissi nel mare come in Il Leviatano o finisca a New York come in Tarabas, un ospite sulla terra, non cambia molto.

La vita di Joseph Roth è la leggenda di un santo bevitore, come quella del clochard Andreas Kartak, convertito ma non vinto, strappato da sotto i ponti della Senna dal suo omologo, il grande scrittore, e, come lui, «un uomo d'onore, anche se senza indirizzo».

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