Incontri uno scrittore israeliano che immagina il mondo schiavo di multinazionali ucraine, giapponesi e cinesi, il suo Paese invaso dai palestinesi e il Medio Oriente privo d'acqua, il tutto fra poco più di mezzo secolo, nel geniale e distopico Idromania (Giuntina, pagg. 232, euro 15) e non ti aspetti un 45enne con la faccia da ragazzo che fa passare la sua identità (anche) attraverso il tifo per l'Arsenal. Da questo piccolo particolare, eredità dei genitori inglesi immigrati vicino Gerusalemme - «mio padre mi portò da piccolo in quel luogo meraviglioso che è Highbury, ho vissuto 10 anni in Inghilterra» (e poi anche in Canada, a Berlino e ora a Tel Aviv) - ti rendi conto che Assaf Gavron è sempre fuori dagli schemi. La conferma arriverebbe da La mia storia, la tua storia (Mondadori, 2009) o Hagiva (La collina): dai kamikaze ai coloni, passando per i kibbutz, lui ha demolito le certezze ideologiche, gli odi e gli stupidi orgogli per guardare oltre, mettersi nei panni più scomodi, magari usando il genere, diventando il maestro del thriller fantapolitico tra il Mar Rosso e il Mar Morto.
Come nasce Idromania?
«Da un gioco con me stesso: mi sono immaginato a 99 anni. E ho pensato che sarebbe stato il 2067 e che nel mio paese, Israele, al massimo ogni 10 anni la storia, i confini, i rapporti di forza vengono stravolti. E allora li ho immaginati capovolti. Non sarebbe così strano, in fondo: nel 1967 è successo a nostro favore, perché un secolo dopo non dovrebbe succedere il contrario? Da lì ho costruito uno scenario politico e tecnologico che si basava su un altro evento molto probabile: una siccità mondiale».
Una grande storia di genere per sbugiardare le ideologie di cui è schiavo il Medio Oriente?
«Senza dubbio, ma vale anche il processo opposto: le ideologie e un futuro possibile sono basi ottime per un thriller fantapolitico. Quello che faccio qui è non fossilizzarmi sul mio Paese, ma immaginarlo come il laboratorio che è da sempre. Manca l'acqua? Aumenta la forza della Cina? Automaticamente cade il potere degli Stati Uniti, su cui noi contiamo molto, forse troppo. Qualcosa a cui dobbiamo pensare, combattere per la pace forse non è solo la cosa giusta da fare, potrebbe banalmente convenirci. Detto questo la mia non è una predizione, è una fantasia non improbabile!».
Una rottura totale con la tradizione della letteratura israeliana moderna?
«Non ho nulla contro Oz, Yeoshua o Grossman. Ma né io, né i miei coetanei, li leggiamo più. Un ricambio generazionale è necessario, a maggior ragione in Israele dove tutto cambia in fretta. Loro vengono da un'epoca difficile ma anche euforica, quella dei kibbutz e di una gioventù che ha costruito il Paese, ma ora i temi politici, economici, ecologici, sociali non possiamo evitarli. Vediamo le proteste di chi non approva come viene governato questo mondo. Loro, semplicemente, vengono dal passato e non hanno saputo capire il presente. Trovo nella mia generazione una varietà maggiore di stili e posizioni, una capacità critica più grande e non credo sia un caso. Loro continuano a essere letti e amati. Li stimo, li rispetto, li ho apprezzati, ma non li trovo più interessanti».
Quando è avvenuta questa rivoluzione?
«Forse è cominciata quando venne ucciso Yitzhak Rabin, ha avuto il suo culmine tra le offerte generose di Ehud Barak rifiutate con arroganza da Arafat e la Seconda Intifada, si è compiuta con la costruzione del muro. Tutto ciò ha cambiato l'identità israeliana, ci ha messo di fronte a una parte di noi che non conoscevamo e che forse non volevamo. Molti di noi, così, hanno cercato una strada diversa: in La mia storia, la tua storia credo di aver portato avanti uno dei primi tentativi di guardare tutto questo da entrambi i lati, l'israeliano e il palestinese. Questi miei racconti - e Idromania è il tentativo di andare oltre - sono dolorosi ma liberatori. So che non potremo andare avanti così, coltivando odio e divisione. Dobbiamo essere realisti e risolvere la situazione».
La cultura può contribuire?
«Non sono così presuntuoso, ma i miei amici irlandesi mi hanno sempre detto che le poesie di Bobby Sands hanno fatto di più, per la pace nel loro Paese, delle sue armi. Intendiamoci, non ho ambizioni didattiche o di scrivere manifesti politici, questa è letteratura di genere. Ma di fronte alle contraddizioni in cui vivo non chiudo gli occhi. E magari quel modo di usarle può aprire nuove strade, può rendere più elastiche le nostre menti».
Un po' come Philip K. Dick: ai contemporanei creava disagio e disorientamento, ora appare profetico.
«Un bel complimento, ma ammetto che la sua riflessione sull'identità e i suoi conflitti, penso a Blade Runner, mi ha sempre attratto. Quel modo di investigare le persone lo sento, con le debite proporzioni ovviamente, anche in me, cerco di liberare la mia immaginazione partendo dalle stesse basi. E non credo sia un caso che, come lui, molti autori miei coetanei abbiano scelto il genere, per raccontare una realtà bloccata. C'è la necessità, per chi scrive e legge, di rompere l'impasse che viviamo. Siamo alle porte di grandi cambiamenti, così proviamo a vederli.
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