Il neorealismo? Era fascistissimo

Il film di Visconti passò alla storia come il primo capitolo di una nuova Italia. Peccato fosse l’esatto contrario

Clara Calamai e Remo Girotti in "Ossessione"
Clara Calamai e Remo Girotti in "Ossessione"

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore Le Lettere, un'anticipazione dell'articolo di Claudio Siniscalchi (professore di Storia del Cinema alla Lumsa), «Ossessione. La modernità del cinema fascista», che sarà pubblicato sul numero di Nuova Storia Contemporanea che arriverà in edicola e in libreria a partire da oggi.


Vittorio Mussolini, il figlio del Duce direttore della rivista Cinema, testata graficamente magnifica, culturalmente stimolante, zeppa di giovani battaglieri, sul numero del 10 gennaio 1943 firma un editoriale dal titolo che si sarebbe rivelato profetico, inconsapevolmente profetico: «Anno decisivo». Vittorio Mussolini pensava alla situazione della cinematografia italiana, e osservava: «Il cinema italiano entra quasi da trionfatore nel 1943». Ma con l'arrivo dell'estate il fascismo, in una notte, andò in pezzi. In quell'estate del 1943, poco prima che gli eventi precipitassero, sugli schermi italiani veniva programmato un film davvero decisivo, Ossessione, opera prima dell'aristocratico Luchino Visconti (Visconti di Modrone conte di Lonate Pozzolo), nato a Milano nel 1906. Il film era un preciso adattamento di un breve romanzo nero di James Cain, Il postino suona sempre due volte (pubblicato negli Stati Uniti nel 1934), anche se nei titoli di testa non veniva indicato. Visconti aveva letto il romanzo nella traduzione francese datagli da Jean Renoir, del quale era stato assistente. La traduzione era servita a Pierre Chénal per realizzare Le dernier tournant (1939), brutto film, statico, finto e macchinoso.

Visconti aveva intuito le potenzialità del testo, ma non voleva cadere nell'errore della trasposizione francese: le riprese in studio. C'era bisogno di aria, sole, strade polverose, piazze gremite, facce vere. C'era bisogno di Verga. Quel Verga che i giovani di Cinema (soprattutto Mario Alicata e Peppe De Santis) invocavano per sotterrare le commedie dei «telefoni bianchi» e dei facili amori, delle corna rigorosamente ambientate in Ungheria e dei letterati innamorati della «bella forma» (i detestati «calligrafici»).

Ci voleva un cinema nuovo, giovane, aggressivo, italiano, italianissimo. E questo fu Ossessione, girato nell'estate del 1942 e uscito nell'estate del 1943. Per protagonista Visconti voleva Anna Magnani, ma poi aveva scelto Clara Calamai, una diva emergente. Al suo fianco Massimo Girotti.

Nella prima scena, Gino (Girotti) si toglie la giacca in cucina e rimane in canottiera, una canottiera lisa e sudicia, poiché è un vagabondo, e Giovanna (Calamai) esclama: «Hai le spalle come un cavallo». Sono passati pochi minuti da quando il giovane è entrato nella locanda gestita dalla donna sposata a Bragana, molto più vecchio di lei, grasso, unto, sudato, volgare. E si capisce bene che quella moglie troppo giovane vuole cambiare vita. Sesso, adulterio, avidità, amore e morte.

Il cinema americano ci avrebbe costruito una fortuna su questi elementi. Ossessione suscitò l'entusiasmo della giovane critica fascista, a cominciare da Cinema. Finalmente era arrivato il nuovo cinema italiano, realista, anzi «neo-realista», come scriveva Umberto Barbaro su Film. I giovani intellettuali, impegnati a farsi largo attraverso la formazione universitaria, i littoriali e le riviste, non aspettavano altro: una sterzata nazionale. Un rinnovamento del fascismo, invecchiato, imbolsito, imborghesito. Quindi una rivoluzione fascista, non antifascista.

La strada di Ossessione fu accidentata. Ma non per motivi politici. Il quotidiano della curia di Bologna, il cattolico Avvenire d'Italia, chiese il sequestro del film, ritenuto osceno, malsano, afflitto dal «morbo francese» (la disperazione nichilista). Poi passarono la guerra, i tedeschi e il fascismo repubblichino. E tutti, ma proprio tutti, i protagonisti di Ossessione, realizzatori, compagni di strada, sostenitori e detrattori, si trovarono nella nuova Italia. Da quel momento le lancette della storia cominciarono ad essere spostate indietro. Il fascismo di ieri scomparve. La memoria cominciò a difettare, a cancellare. O a inventare.

Così nacque l'idea di Ossessione quale «25 luglio del cinema italiano». Il battesimo si ha nel 1953 su Cinema Nuovo, la vecchia rivista di Vittorio Mussolini, ora rinnovata in veste marxista, e diretta da un giovane intellettuale di ieri, Guido Aristarco, critico cinematografico del ferrarese Corriere padano, fondato da Italo Balbo.

L'antifascismo e il neorealismo erano nati, nessuno dubitava, con Ossessione. La leggenda monta. Si accresce di anno in anno. Ma ad un certo punto crolla. Ossessione non è un'opera antifascista. Semmai è il contrario: un'opera fascista. La migliore produzione del cinema italiano partorita dal ventennio fascista. Quanto al neorealismo, già con l'apparizione del romanzo di Alberto Moravia Gli indifferenti (1929) era entrato nel dibattito critico italiano. E il realismo, semmai, è il tratto più preciso dell'estetica fascista, poiché totalitaria. Nella definizione antifascista e neorealista (naturalmente il neorealismo nella versione comunista) di Ossessione, in realtà, una generazione di intellettuali che erano stati fascisti in fondo si impegnava ad assolvere se stessa. Il giovane Guido Aristarco dalla provincia aveva sostenuto con convinzione Visconti, né più né meno del giovane romano Carlo Lizzani. L'autore di Ossessione si tenne alla larga. Diventato anche lui antifascista e comunista (anche se immaginario), avvalorò la tesi, ma senza entusiasmo.

In realtà aveva realizzato, nel 1943, un'opera dirompente e non conformista, europea, decadente, esistenzialista e cattolica. Ma nel tempo in cui viveva preferì “dissimulare”. La favola era bella. Aveva molti e potenti interpreti. Ma non avrebbe retto.

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