La piccola Bovary punk di Paolo Cognetti

La piccola Bovary punk di Paolo Cognetti

Qualche giorno fa, su queste pagine, Massimiliano Parente, nel recensire un romanzo di Giuseppe Culicchia affermava (ribadiva) quanto siano «lagnose le donne quando parlano delle donne», e quanto siano invece bravi gli uomini (certi uomini) nel farlo. Dove, ovviamente, «parlare» significa «scrivere». Le eccezioni, magari fuori dai romanzi, magari persino sui giornali come questo, esistono, dico io. Ma Parente in linea generale ha ragione. E, proprio sulla scorta della sua recensione, in tema di uomini che scrivono di donne, per avvalorare la sua tesi gli lasciamo volentieri il suo Culicchia e ci prendiamo Paolo Cognetti.
Sofia si veste sempre di nero (minimum fax, pagg. 201, euro 14) non è un'opera «al femminile». Se lo fosse, sarebbe poca cosa. È, al contrario, un'opera femmina: a carattere temporalesco, climaticamente instabile come l'inizio della primavera e la fine dell'estate. Vi si respira un'aria fina nonostante la milanese Scighera (che poi sarebbe l'anarchia, e l'anarchia, come si sa, è femmina), un'aria in cui anche gli uomini quando sono sereni diventano ombrosi e viceversa. E la stessa struttura del libro, composto da dieci racconti che hanno potenzialmente vita autonoma e che insieme formano un romanzo, ha un che di femminile: le donne vanno prese rispettando i loro umori altalenanti, sapendo che l'altalena sale e scende, scende e sale... e che alle bambine, più che ai bambini, piace andare in altalena...
Sofia nasce nel 1977. Ha una mamma bella, artistoide e depressa, e un papà rigoroso, gran lavoratore e un po' orso. Ha una zia con sulle spalle il peso degli anni di piombo e che da rivoluzionaria diventa quasi una dama di carità («È che tu sei comunista dentro - le dice Sofia -. Voi siete come i cattolici, vi fate un culo così perché credete nel futuro. Io voglio essere felice adesso»). A sedici anni se ne va di casa, lasciando il paesaggio finto-bucolico di Lagobello, una specie di Milano 2 o 3 o 4, per studiare recitazione, ma scopre che anche Roma è un teatro troppo piccolo. Si mette con un operaio quarantenne che non è comunista come la zia, ma che, troppo libertario, non accetta la sua, di libertà. Come ogni ragazza femmina e non soltanto donna, ha con il padre un legame fortissimo e conflittuale ma quando anche lui, come fece lei per evitare la prima comunione, ai tempi in cui giocava ai pirati con i maschietti, si rapa i capelli a zero è per colpa di un'altra femmina che sa essere buona e cattiva al tempo stesso, che cura e distrugge: la chemioterapia.
Sofia è una piccola Bovary incazzata nera come i suoi vestiti, è una piccola Karenina che tradisce soltanto se stessa, si colloca idealmente fra due femmine di Thomas Mann: la bambina di Disordine e dolore precoce e la signora matura che s'aggrappa a un giovane amante e a un certo punto lo implora così: «stiamo da soli come i cigni neri». Sofia si getta nella carnevalata di un corteo in via Torino, utile soltanto a creare un diversivo per gli impiegati durante la pausa pranzo. E gironzola in motorino di notte tra le fabbriche dismesse. E litiga, e soffre, e non riesce a piangere. Sofia non è l'amante-collega di papà, non è le altre donne non femmine che incontra. Sofia Muratore è la dimostrazione vivente che aveva ragione la brava infermiera la quale si prese cura di lei quand'era nell'incubatrice. Le disse, a voce alta per farsi forza: «Sofia, lo sai che cos'è la nascita? È una nave che parte per la guerra».

E quando incontra a New York l'Autore e la sua prima persona con cui anche lui si mette a nudo, la loro storia d'amore durata cinque anni (e questi dieci racconti) assume il significato del rispecchiamento. Cognetti non lo scrive ma lo facciamo noi per lui: «Sofia Muratore sono io».

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