Non può non avvincere questa parola così poetica e carica di sentimento. La nostalgia è il desiderio acuto di tornare in un luogo che è stato abituale e che ora è lontano; è uno stato d’animo malinconico, causato dal desiderio di un luogo, di una persona lontana o scomparsa, di una cosa non più posseduta, dal rimpianto di condizioni ormai appartenenti al passato. La parola dice tutto questo con la semplice unione di due vocaboli greci: nostos=ritorno e algìa=dolore, che sembrano sollevare il sipario sulla memoria della vita che è stata e su quella che avrebbe potuto essere. L'etimologia è chiarissima: di nostalgia si soffre. Talvolta si muore.
Ma non vorremmo deludere le anime dei lettori più sensibili: questa parola così bella e tanto ricca di passione non è poi tanto antica e non nasce dall'esigenza di definire dei sentimenti. Anzi. Fu coniata “a tavolino” – come racconta bene il Deli - come termine medico da uno studente alsaziano di Mulhouse, Johannes Hoffer, che nel 1688 all'università di Basilea dedicò la sua tesi di laurea a quella malattia che non di rado coglieva i mercenari svizzeri durante il loro arruolamento in eserciti stranieri. Il nome popolare Heimweh o Mal du pays (“dolore, male della patria”) sembrò al laureando troppo poco solenne, ed egli pensò bene di fare quello che si è sempre fatto nella terminologia medica: lo tradusse in greco (si pensi a quanti termini medici terminano con -algia: sciatalgia, nevralgia, gastralgia). Così Nostalgia diventò il titolo della tesi. Per quasi due secoli la scienza fece sua la descrizione dei sintomi di quel male studiato dal giovane medico alsaziano: le persone che ne erano colte si facevano mute, svogliate, nemiche della compagnia. La parola uscì progressivamente dal linguaggio medico solo alla fine dell'Ottocento, quando letterati come Carducci e Fogazzaro cominciarono a usarla per indicare una tristezza profonda e quasi patologica.
Interessante l'evoluzione ricostruibile attraverso i vocabolari. Nè la Crusca, né il Masi (1823) né il D'Alberti di Villanuova (1825) riportano nostalgia. Il Panlessico (1839) definisce la nostralgia come Genere di malattia piuttosto mentale che fisica, in cui la fantasia spinge vivamente chi è lontano dalla patria a bramare il ritorno in essa; onde, essendo questo impedito, ne deriva poi forte malinconia, agripnia, anoressia,ed altri sintomi gravi”. Il Tommaseo trent'anni dopo si esprime così: “Doloroso desiderio del ritorno in patria, malessere, che prova chi è lontano da' suoi luoghi e che insieme con le influenze del clima diverso può diventare malattia”. E conclude con un'affermazione un po' snob, che oggi, in tempi di tragiche migrazioni, verrebbe considerata molto scorretta: “Nobile privilegio de' paesi poveri”. Il Premoli ancora nel 1912 dà questa definizione: “Il cordoglio e la mestizia profonda che nasce in persona lontana dal paese natio; malattia cagionata da forte brama di tornare nella propria patria” e qui si scatena in una serie di sinonimi o quasi (non a caso il suo si chiama Vocabolario nomenclatore): “Allodapia, allodemia, lipodemia, malattia del paese, nostomania, potopatridalgia, potopatridomania”. Spiega ancora il Deli, citando gli 'Scritti per Francescato': “Poi, sia l'idea di malattia sia quella del ritorno al paese natio si vennero affievolendo; la prima sfumando in una tenue malinconia, la seconda in un vago rimpianto di luoghi, di persone, di tempi passati; ovvero di ricordi o di speranze oltremondane (il Carducci parla di “una nostalgia dell'infinito”, il Momigliano di “ardente nostalgia del sovrumano”)”.
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